La vita è un dono, buon Natale

Avrei dovuto pubblicare la poesia e il racconto che Rosa Serra ha voluto regalare ad amici e lettori di Lettere Meridiane prima di oggi, visto che si parla dell’attesa natalizia. Lo faccio adesso volutamente: perché a furia di vivere questo periodo come una interminabile vigilia, abbiamo smarrito il senso del giorno di Natale, che è quello di una nascita che sconvolge la storia: dopo, niente sarà più come prima.

Invece, i giorni si dilatano, cominciamo a farci gli auguri da Halloween,  il Black Friday dura ormai un mese a mezzo. Fino a qualche anno fa, stigmatizzavamo il tempo reale, che ci faceva consumare tutto e subito. Ora le cose vanno perfino peggio: oggi viviamo un tempo anticipato, dove tutto viene accelerato e dilatato.

Resistiamo. Difendiamo il nostro tempo andato, quando pregustavamo ciò che sarebbe successo (forse) domani, ma intanto vivevamo il presente con serenità, e fino in fondo. È questo l’invito pressante che affiora dalla videopoesia di Rosa Serra, che, delicata ma profonda, che ci restituisce il senso più profondo del Natale, che è dono, così come la vita.

L’incanto che Rosa ci regala è completato dal suo racconto, che fa memoria del Natale di una volta, quando l’attesa – allora sì – aveva un significato. Guardate la videopoesia, leggete il racconto, condivideteli, fateli girare.

Resistiamo. Ricordiamo. Non c’è niente di più attuale della memoria. (g.i.)

* * *

La vita è un dono

Cosa abbiamo fatto
per meritare queste mille luci
questo tepore nelle case?

Cosa abbiamo fatto
per poter stringere al petto
i nostri bambini senza avere
la necessità di difenderli?

Cosa abbiamo fatto
per meritare la leggerezza della vita
il buon libro, il film allegro,
ma anche uno triste,
il caffè e il parlare a volte del nulla?

Cosa abbiamo fatto per meritare
l’attesa fremente e gioiosa
di natali sacri e profani?

Cosa abbiamo fatto?
Nulla, assolutamente nulla

Rosa Serra

* * *

Quando si giocava a tombola con le bucce dei mandarini

Ecco ci siamo. Natale è alle porte. Anzi no, non è alle porte, ci ha già invaso.

È da metà novembre che giardini, negozi, case e discorsi sono in versione natalizia, un natale sempre più consumistico e sempre più mirante a strabiliare. Siamo ancora in tanti (non so per quanto tempo ancora) a ricordare i vecchi natali, fatti di solide e ripetute rassicuranti tradizioni, semplici privi di qualsiasi vanità.

Provo perciò a raccontare il mio natale; è quello che mi è rimasto nel cuore e che non ha avuto eguali negli anni successivi. Certamente non ha alcunché di originale salvo che è il mio Natale, ma forse anche di tanti altri.

Con gli anni ho scoperto che il Natale più di ogni altra festa o ricorrenza sente lo scorrere del tempo.

I compleanni nelle foto li si riconosce dalla foggia degli abiti indossati, dagli invitati e dalle immancabili candeline sostituite nel tempo da quegli efficienti ma, mesti numeri che indicano decine e unità.

I Natali, invece, li si ricorda per blocchi, per periodi della nostra vita.

Ci sono quelli della nostra infanzia, quelli dell’adolescenza, quelli che hanno determinato il passaggio dal viverli come figli a quelli che ci hanno visto come genitori, per finire a quelli che oggi ci vedono nonni. Ma questi in un certo qual modo non ci appartengono quasi più; non siamo più noi i protagonisti o meglio ci troviamo a seguire i desideri e le nuove mode che altri vogliono anche per noi.

Com’era il Natale di quando eravamo bambine e bambini? Era povero, sì povero, ma non nel senso di misero, ma nell’azzardata accezione di semplice, ingenuo così come lo eravamo un po’ tutti.

Tutto cominciava la Vigilia di Natale, durante la cena.  Ieri come oggi penso che il 24 sia il vero giorno di Natale”. Tutte le aspettative, la gioia, le riunioni familiari sono concentrate in questa giornata.  I giorni a seguire vivono di luce riflessa, di “festa riflessa”.

L’eccitazione della giornata cominciava dalla mattina guardando cucinare mia madre e mio padre, ognuno con il suo cibo da preparare (verdure e baccalà mamma e anguille dei Laghi mio padre- entrambi cibi che non mangiavo e che non amo ancora oggi). I nostri vicini – foggiani doc – sapendo che mia madre aveva altre tradizioni, ci portavano le mitiche pettole o pizze fritte col pomodoro e pecorino. Tutti spizzicavamo qua e là sapendo che non avremmo potuto fare il vero pranzo non prima delle quattro del pomeriggio.

Questa cosa a me piaceva molto, perché sentivo che anche il sovvertimento degli orari contribuiva a rendere speciale questo giorno.  Clara, mia sorella maggiore già liceale era invece di tutt’altro avviso. Manifestava apertamente la sua insofferenza dicendo che era un’usanza assurda (mi pare che dicesse addirittura “barbara” per fare più scena) il non poter consumare il regolare pasto a mezzogiorno.

Le tradizioni (che oggi amiamo molto) in quel periodo pre-pre-sessantottino erano viste dalla bella gioventù di allora (io non ancora) come un segno di intollerabile provincialismo.  Cominciavano a scricchiolare le “sacre” tradizioni?  I primi segni della contestazione giovanile passarono anche per il natale? Non ricordo, anche perché il 24 dicembre, restò comunque sempre un punto fermo della mia famiglia e non solo della mia e lo è ancora anche se in termini molto diversi e non sempre condivisibili…ma questa è un’altra storia.

A scuola, come oggi, si insegnava la poesia di natale, che poi io declamavo davanti a tutta la famiglia, con quella cantilena propria delle poesie che vengono imparate e ripetute fino allo sfinimento contemporaneamente dall’intera classe.  Per tutto il tempo di questa esecuzione (nel senso di fucilazione morale) mia sorella e mio fratello, più grandi di me, mi motteggiavano senza tregua in un modo che allora mi sembrava crudele ed effettivamente lo era.  Le loro continue interruzioni mi costringevano ogni volta a ricominciare testardamente daccapo. Questa scena provocava il divertimento di tutti. L’unica ad essere infelice ero io.

Oltre alla poesia ci facevano scrivere la letterina, no, non quella indirizzata a babbo natale di cui ancora non sapevamo nulla e che comunque apparteneva ancora ai bambini del nord Europa, ma quella dedicata al papà. Ecco, ora che ci penso, i Papà veri sono stati sostituiti da Babbi finti… Mah!!

La ricerca della letterina più bella, più colorata e più luccicosa mi faceva fare il giro di tutte le cartolerie che conoscevo. Le più belle però le vendevano quei chioschi ormai perduti che erano a ridosso delle scuole e che vendevano un po’ di tutto dalle letterine alla liquirizia. Compravo quasi sempre quella in cui un Gesù bambino roseo e paffuto, contornato da una teoria di morbidi angioletti, mi guardava e sembrava dirmi: ”Scegli me”.

Una volta a casa nessun posto mi appariva sufficientemente sicuro per nascondere questa magica busta.   Poi, una volta apparecchiata la tavola, operazione che mi vedeva solerte e interessata volontaria, nascondevo con la complicità di mia madre, la letterina tra le pieghe del tovagliolo di papà. E qui cominciava il rito e la mia apprensione.  Mio padre, sapendo ovviamente della tradizionale letterina, fingeva di cambiare posto e mia madre lo riportava al suo.   Il ritardo ostentato da papà nel distendere quel tovagliolo (quelli di carta ancora non comparivano) che allora erano così grandi da sembrare lenzuola, era seguito da me con crescente trepidazione per poi sciogliersi in gioia pura quando finalmente si compiva la tanto desiderata sorpresa.

La cena quindi si svolgeva con leggerezza nel senso pratico della parola. Il menù, composto da pietanze tradizionali era coerente alla capacità del nostro stomaco.  Non c’erano infinite portate che come oggi si trascinano nei giorni successivi o che finiscono nel congelatore o peggio in pattumiera, perché non… ce… la… si … fa più a mangiare. Era tutto pacatamente moderato.

Si poteva così arrivare ad apprezzare nella loro pienezza i dolci ed anche il panettone -da scegliere tra due soli marche, Motta o Alemagna. No, il pandoro ancora non faceva la sua comparsa e tanto meno il tartufone o il recente carissimo panettone artigianale, da mangiare molto lentamente per far durare il prezioso boccone più a lungo, dato il suo elevato costo.

A questo punto comparivano i giochi.

La tombola, la gloriosa tombola, ma quella vera. Niente figure napoletane, niente cartelle elettroniche, niente caselle con le serrandine di plastica, anche questa era semplice con il suo canestrino di vimini.

Per segnare i numeri che uscivano usavamo le bucce dei mandarini che avevamo conservato durante la cena e ricordo i minuti pezzetti che preparavo nella speranza di usarli tutti.  Esattamente come allora, continuo a non vincere. Ancora oggi quando sbuccio il primo mandarino di stagione, il suo profumo mi rimanda inevitabilmente al Natale e alla sua tombola.

L’alternativa alla tombola era il leggendario gioco dell’oca, quella spirale fatta di salti, arretramenti, soste, pozzi, oggi praticamente scomparso.  Non ricordo più se si giocava con uno o due dadi, ma certamente non dimentico l’eccitazione che provocavano quel loro cadere sul tabellone. Scaturiva tra di noi la grande competizione ben sapendo che alla fine c’era solo un arrivo ad attenderci, niente premi, solo la soddisfazione di essere arrivati primi.

Non è per bontà verso di voi e neanche per non abusare della vostra pazienza che non descriverò il rito dell’apertura dei regali, perché questo era pressoché inesistente. Però, facendo un salto in avanti di un decennio e più rispetto al periodo che sto raccontando, voglio accennare a quel fenomeno nato in quegli anni e che è stato lo scambio dei regali.

Se inizialmente ciò avveniva all’interno della famiglia, con oggetti di solito utili, questo nuovo culto si è man mano allargato, coinvolgendo sempre più una foltissima schiera di amici, colleghi di lavoro, vicini di casa, parrucchiere ed altri soggetti improbabili. Era così nato “il pensierino di natale”, che diventava sempre più pensierino e sempre meno utile con l’aumentare della platea dei beneficiati. Ovviamente, oltre che a farli questi regalini, li si riceveva. Questo fatto ha prodotto un’interessante arte, quella del riciclo. La chiamo arte perché bisognava ricordarsi bene da chi si era ricevuto quel dono per poterlo ricollocare con tranquillità l’anno successivo o in altra occasione. So di amicizie finite molto male per una distrazione.

Dopo questa breve deviazione, riprendo il racconto.

Dunque, ad un certo punto giunse, anzi si aggiunse in questa festa sempre più profana, l’internazionale Babbo natale per la gioia di fabbriche, multinazionali e negozianti. Ignorando l’uno la presenza dell’altro, Babbo Natale e la Befana facevano con meticolosità il loro lavoro. La Befana a cavallo di una vecchia ed ecologica scopa il 6 di gennaio in Italia mentre Babbo Natale – uomo di potere – con slitta a sei renne il 25 dicembre in tutto il mondo. Ma l’essersi incontrati nello stesso periodo, ha prodotto l’inflazione dei doni e lo scompiglio nei desideri dei bambini.

Quindi, tornando a quando c’era solo la cara vecchia Befana, questa provvedeva a riempire il calzettone, appeso al letto e scelto tra i più grandi, di caramelle, cioccolatini e forse qualche gioco.

Si ripeteva però anche la finzione di farci trovare la calza piena del tanto temuto carbone, ma quello vero, del braciere ancora in uso e non di zucchero così, giusto per vederci soffrire!!!

Ecco questo è, era il mio natale.

Rosa Serra

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Author: Geppe Inserra

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