Ricorre oggi il 25° anniversario del tragico crollo di viale Giotto: il più grande disastro edilizio mai verificatosi in Italia, che costò la vita a 67 donne, uomini e bambini, stroncati mentre dormivano. Lettere Meridiane ricorda quell’amara giornata pubblicando le toccanti riflessioni che Savino Russo scrisse per Gli amici del museo qualche giorno dopo il drammatico evento. Una fortuita coincidenza vuole che proprio in questi giorni si stia celebrando il decennale della scomparsa dell’indimenticabile artista ed intellettuale, che sarà ricordato martedì 19 novembre da Fondazione Monti Uniti, Auser Territoriale e Confraternita di Sant’Eligio (ore 18.00, presso la Sala Rosa del Vento della Fondazione, in via Arpi 152). Commemoriamo così le due ricorrenze. Ci piace pensare che, lassù, le vittime di Viale Giotto e Savino si siano riunite, e stiano sorridendo, vegliando assieme sulle sorti della nostra città. Ringrazio il sempre attento amico Tommaso Palermo per aver messo a disposizione il prezioso scritto.. (g.i.)
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A casa mia ne abbiamo contati dodici, là sotto.
Dodici tra parenti, amici, conoscenti magari salutati distrattamente il giorno prima.
Tonino l’avevo incrociato da poco, ad un semaforo: aveva fatto scivolare a due centimetri dal muso della mia automobile la sua circolare in curva ed aveva fatto finta di non vedermi: non gli interessava il mio saluto; gli bastava sapere che, come al solito, m’ero spaventato…
Storie minime che “normalmente” non interessano a nessuno, inutili come rimorsi che ti prendono per una parola non detta, per un gesto non fatto e che non potrai dire o fare mai più. Perché il tempo è scaduto, non c’è più tempo.
E non c’è più nemmeno lo spazio, quello spazio fatto di relazioni tra una via ed un palazzo, tra un palazzo e gli altri palazzi: ora lo spazio a viale Giotto è un palcoscenico vuoto che si apre su una ridicola collinetta di detriti, delimitata dalle quinte di palazzi mai visti prima, in quella prospettiva.
Altre case, altre famiglie, tante altre vite ma tutte ugualmente cristallizzate, soggiogate dalla magia crudele di un castello di carte che si affloscia senza far neppure troppo rumore e che si trasforma in un silenzio fatto di stupore e di solidarietà, di sgomento e di umanissima partecipazione.
Li ho visti, i foggiani, a viale Giotto: sembrava che fosse Giovedì Santo, sembrava di partecipare al tradizionale rito della visita ai “Sepolcri” delle chiese del centro storico. Una fiumana di gente silenziosa che si dirigeva verso il palazzo-che-non-c’è-più non per curiosità, ma quasi per un rito espiatorio, per legare la sofferenza di tanti alla sofferenza di tutti.
Mi sono sentito finalmente foggiano, io che foggiano non sono, a viale Giotto: finalmente orgoglioso di far parte di una comunità che con grande dignità e compostezza si recava in pellegrinaggio a questa Spoon River di casa nostra, a questo villaggio di sei piani trasformatosi in una collina di cinque metri difficile – impossibile – da spianare nella nostra memoria collettiva.
Ricorderemo tutto: la collinetta e il cielo vuoto sopra quel cumulo, lo sguardo perso di un giovane militare e la cocciuta, ininterrotta opera di un pompiere, quella telecamera fissa che ci teneva incollati ai televisori e la puzza di nafta dei camion militari che – interminabili – trasportavano le bare di più di sessanta persone, morte in una notte qualsiasi, in un condominio qualsiasi, in una città non qualsiasi (perché la nostra).
Se anche questa è storia, avremmo preferito non entrarci.
Savino Russo
(in “Amici del Museo di Foggia”, anno IV – n. 8, novembre 1999)
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Molte Grazie, Geppe, per questo bel commento che non conoscevo. Savino era una persona speciale, ha fotografato quella tragedia come meglio non si sarebbe potuto. Ricordo quei giorni e ricordo la concitazione di metter su un racconto di giornata che cambiava di ora in ora. Davvero una storia in cui nessuno, credo, avrebbe voluto entrare.