I diari foggiani di Luciano Bianciardi, il racconto del 22 luglio 1943

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Luciano Bianciardi è stato un’icona letteraria della mia generazione. Vedevamo in lui – anche se ha assai poco di che spartire con gli americani – una sorta di Kerouac della Maremma toscana. È conosciuto soprattutto per La Vita Agra, romanzo dal quale fu tratto l’omonimo, bel film di Carlo Lizzani, interpretato da Ugo Tognazzi. Il romanzo che amo di più è però Aprire il fuoco. L’una e l’altra opera, come del resto buona parte della letteratura di Bianciardi, sono attraversate dal tema più caro allo scrittore: l’insofferenza e la critica verso lo status quo, il difficile rapporto tra l’intellettuale, la società e il mondo, temi che attraversano anche le «pagine foggiane» del grande scrittore.

Bianciardi si trovava a Foggia nel giorno più difficile e  più drammatico della storia della città: il 22 luglio 1943. Vi era arrivato qualche giorno prima, quale ufficiale dell’Esercito, per quello che sarebbe stato il suo primo incarico operativo. I bombardamenti alleati lo segnarono in maniera indelebile.

Lettere Meridiane ha pubblicato più volte il racconto L’ultima lettera che scrissi a Maria Grazia. Mentre cadono le bombe alleate, Bianciardi è chiuso con i suoi compagni d’arme nella Caserma Miale. Forse per stemperare la tensione, pensa bene di scrivere una lettera a sua sorella: «È stato un gesto retorico e letterario, anzi, come diceva Mucciarelli, marcio di letteratura, ed io me ne son pentito. In quel tempo leggevo Ungaretti e c’era una poesia che m’era rimasta in testa: ‘Un’intera nottata buttato vicino al compagno massacrato, con la sua bocca digrignata volta al plenilunio, e la solitudine delle sue mani penetrata nel mio silenzio, ho scritto lettere piene d’amore. Non sono stato mai tanto attaccato alla vita’. Non ricordo più come fossero rimasti i versi, e nemmeno potrei dire se sono esattamente così, ma allora mi fecero una grande impressione; per questo, appena cominciarono a cadere le prime bombe presi la carta e scrissi quella lettera.»

Le giornate foggiane di Luciano Bianciardi sono al centro anche dei Diari di guerra 1944-1946, pubblicati postumi nel primo volume della sua opera omnia, L’antimeridiano (a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Coppola e Alberto Piccinini, Isbn Edizioni).

Le prime annotazioni sono ironiche, quasi divertite, come quando lo scrittore racconta della prima sistemazione cui lui e il suo plotone furono costretti, appena arrivati a Foggia. «Nella fattoria dove ci eravamo spostati, il mio plotone alloggiò in una stalla, gli altri in certi ripostigli per le macchine agricole. Vicino a noi cinquanta prigionieri sudafricani, tutti bei ragazzoni alti e biondi. Il rancio lo andavamo a prendere alle vecchie casematte, distanti quattro chilometri: in totale sedici chilometri al giorno con la gavetta in mano, nella seconda metà di luglio, a Foggia.»

Poi arriva il 22 luglio, che Bianciardi definisce «la giornata nera», e tutto cambia. Il resoconto è di una straordinaria intensità, e di enorme importanza perché rappresenta una delle poche testimonianze in presa diretta di quella infausta giornata.

Il bombardamento durò (tre ondate a breve distanza) circa mezz’ora: mi parve colorito di un certo romanticismo ed ero contento. Nel pomeriggio cambiai tono.

Il bombardamento ha un senso tutto particolare originalissimo: credo che non sarebbe possibile creare artificialmente una città bombardata. Particolarissime buche, alberi schiantati in una maniera inimitabile, case sfondate tutte allo stesso modo ed anche i morti, animali e uomini, erano caratteristici. Il volto scuro, la pelle colorita di un bruno scuro, come se fossero stati rotolati nella polvere, i cavalli con la pancia gonfia, enorme.

Intorno al palazzo Incis c’erano molti cadaveri. Il primo che vidi era un ragazzo di circa diciassette anni, con la carne bruciata, cotta dall’esplosione. Contro il muro un ammasso di carne, stoffa e capelli (seppi poi che era una donna). Dall’altra parte un soldato con le gambe fratturate. Cominciava il lavoro.

Ricordo un cadavere che spinsi con una pala sopra la persiana, carne e sangue che rimaneva attaccato all’asfalto. Sentivo che lo stomaco cedeva, non potevo continuare: pregai i miei compagni di risparmiarmi quel lavoro infame e mi incaricai di tener lontani i curiosi. Non avevo avuto paura di morire ma non me la sentivo di toccare i morti. Quella morte nel suo aspetto più brutale e più osceno mi faceva male. Ricordo una vecchia col pugno stretto rivolto in alto, pareva una maledizione. E una ragazza bellissima, intatta (l’esplosione aveva rovinato dentro, evidentemente), seminuda, con le gambe aperte; tentarono di congiungerle, ma la morte l’aveva irrigidita così. La coprirono con un altro cadavere.

Tre bambini distesi sul marciapiede, ed un uomo che piangeva, con un dolore abbandonato e senza speranze. Presero i tre cadaveri e li gettarono sul carro: la scena mi fece quasi impazzire e ordinai gridando, bestemmiando a due signori di portar via il padre. Io stesso lo presi per un braccio, con violenza e lo tirai via.

Non c’era altro da fare.

Assieme a L’ultima lettera che scrissi a Maria Grazia (che potete leggere qui) i Diari di Guerra offrono il racconto più vero e drammatica di quella tragica giornata. Fanno giustizia di tutte le polemiche sul numero delle vittime. Grande letteratura, grande esercizio di narrazione storica. Da leggere e rileggere, da far studiare nelle scuole.

Geppe Inserra

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Author: Geppe Inserra

1 thought on “I diari foggiani di Luciano Bianciardi, il racconto del 22 luglio 1943

  1. Cosa posso dire più di quanto ho scritto in proposito. Io non c’ero per cui ho dovuto rifarmi a quanto mi fu riferito da un anziano ferroviere che al tempo era giovanissimo. la descrizione del Bianciardi circo lo scenario tragico di vittime e sconquassi e molto vicina a quello e quanto ascoltai dal ferroviere che conobbi in età di pensione. Al di la della tragedia umana vissuta cosa si può dire di più di quella giornata tremenda del 22 luglio 43. Le guerre sono tutte uguali tolgono soltanto e non restituiscono niente, se non migliaia di morti e distruzione. Ma questo è un discorso che i guerrafondai non fanno mai.

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