Come le banche del Nord hanno depredato il Mezzogiorno

Parlare di sistema bancario e creditizio è affare da addetti ai lavori. La puntata numero 25 del viaggio nella questione meridionale e nella storia del meridionalismo in cui ci sta conducendo la brillante penna di Michele Eugenio Di Carlo ha il pregio di rendere comprensibile a tutti l’intricato problema, e di chiarire come le decisioni assunte da diversi governi, dall’Unità ad oggi, abbiano di fatto spostato ingenti quote di ricchezza dal Sud verso il Nord. L’inevitabile conseguenza è che il Mezzogiorno si è impoverito a vantaggio del Settentrione, e che il divario si è aggravato fino a diventare probabilmente irreversibile.

L’autonomia differenziata invocata da alcune regioni del Nord sarà il colpo di grazia. Buona lettura. (g.i.)

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Il crollo che ha portato allo smantellamento del sistema bancario del sud Italia presenta fasi ben precise che sono state illustrate puntualmente, in relazione agli ultimi decenni, dal giornalista del «Mattino» di Napoli Marco Esposito, nel testo Separiamoci [1].

Nel 1990, con Giuliano Amato presidente del Consiglio inizia il processo di trasformazione del sistema creditizio italiano in soggetto di diritto privato, spingendo con incentivi fiscali le banche, enti di diritto pubblico, «a separare la propria attività in due: una fondazione e una banca società per azioni, con la prima proprietaria al 100% della seconda». Se nella prima fase la legge obbliga le fondazioni a mantenere il controllo delle banche, nella seconda impone l’obbligo di scendere al di sotto del 50% con il risultato finale che le banche passano a un sistema che permette la scalata del più forte.

Dopo il referendum del 1993, la nomina dei vertici delle fondazioni passa dal Governo agli Enti Locali e Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, consente che i grandi gruppi finanziari del Nord assorbano anche i colossi creditizi del Sud, come ad esempio il Banco di Napoli. Ed ecco che «le fondazioni bancarie erogano fondi e sostengono servizi per il 93% al Centro-nord e per il 7% al Sud» [2].

La copertina del libro di Marco Esposito

L’elenco delle fondazioni, all’origine banche e casse di risparmio risalenti anche al Cinquecento, che hanno ceduto il controllo negli anni Novanta a Istituti del Nord è «impressionante», come afferma lo stesso Esposito rubricando gli istituti acquisiti dalla sola Banca Popolare dell’Emilia-Romagna tra il 1994 e il 2000: Banca del Monte di Foggia, Cassa Rurale di Sicignano negli Alburni, Banca Popolare del Materano, Banca Popolare di Lanciano e Sulmona, Banca Popolare di Crotone, Credito Commerciale Tirreno, Banca Popolare della Val D’agri, Banca Popolare del Sinni, Banca Popolare di Castrovillari e Corigliano Calabro, Banca Popolare di Salerno, Carispaq-Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila, Banca Popolare dell’Irpinia. Ma l’elenco non sarebbe completo se non si tenesse conto della perdita dei seguenti altri istituti: Banca Sannitica, Banca del Salento, Banca Popolare di Napoli, Banca della Provincia di Napoli, Credito Commerciale Tirreno, Banca Mediterranea.

Facciamo ora un passo indietro all’Unità d’Italia. Il napoletano Antonio Scialoja, Ministro nel governo costituzionale di Carlo Troja del 1848, esule a Torino e diventato uno strenuo sostenitore di Camillo Benso conte di Cavour, scriveva un noto opuscolo che chiudeva con un accostamento impietoso tra «l’alta posizione morale e politica del Piemonte e il grado d’inferiorità in cui era il Regno di Napoli». Scialoja fu accusato di denigrare la propria patria, di essere in malafede e Ferdinando II cercò inutilmente di confutare le sue tesi, ampiamente divulgate dalla propaganda inglese e piemontese [3].

Scialoja sarebbe diventato nientedimeno che Ministro delle Finanze e, come tale, avrebbe introdotto il “Corso forzoso” della lira nel 1866, permettendo al neo Stato Italiano di onorare i debiti legati al processo unitario e alle guerre, ma determinando un vero e proprio attacco al sistema bancario e all’economia del Mezzogiorno, portando a completamento la subdola  «politica di drenaggio delle riserve auree del Banco, col risultato di privare il Sud del suo oro e delle sue capacità di credito». Infatti, già dalla metà del 1863 le riserve auree del Banco di Napoli erano calate da 78 a 41 milioni ed avevano preso la direzione di finanziare attraverso la Banca Nazionale il nascente sistema industriale settentrionale in crisi [4].

Edmondo Maria Capecelatro, assistente di Storia economica nell’Università di Napoli, e Antonio Carlo, professore incaricato di Diritto del lavoro nell’Università di Cagliari, hanno sostenuto che solo l’assidua assistenza della Banca Nazionale avrebbe permesso alla struttura industriale del Nord in crisi di sopravvivere a spese di quella del Sud, che penalizzata dalla strozzatura del credito e delle commesse, e dalla «mancata autorizzazione per la costituzione di banche mobiliari» andò in crisi. Ma quando, nonostante l’aiuto statale, la situazione delle banche di sconto e di credito mobiliare si fece critica, si decise con la legge sul “Corso forzoso” del 1° maggio 1866 di drenare oro dal Sud senza limiti, concedendo alla Banca Nazionale un privilegio che le permise «di controllare e compromettere, eventualmente, l’attività delle altre banche» e di avere una posizione nettamente dominante. Per di più, alla Banca Nazionale fu concesso «di stampare carta moneta, comperando con essa oro, il che, poi, permetteva alla banca di triplicare la sua circolazione» nel 1867 (L. 82 milioni oro – circolazione L. 246 milioni) con la garanzia di essere affrancata dal rischio di cambio con un altro privilegio: l’inconvertibilità. Il tutto fu giustificato con il necessario e patriottico finanziamento della guerra contro l’Austria del 1866. Ma finita la guerra, il “Corso forzoso” fu prolungato fino al 1883. Sulla vicenda fu aperta un’inchiesta parlamentare conclusa nel 1868. In Parlamento, rispondendo all’interrogazione dell’on. Avitabile [5], il ministro delle Finanze Scialoja ammise che l’aver sacrificato il Banco di Napoli, per motivi che egli stesso riteneva necessari, era «una volgare verità» [6].

Non è un caso che Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, sia stato costretto a dichiarare, nel Rapporto Italia 2020, che sulla «questione meridionale, dall’Unità d’Italia ad oggi, si sono consumate le più spudorate menzogne».

Michele Eugenio di Carlo

NOTE

[1] M. Esposito, Separiamoci. Il Sud può fare da sé, Milano, Magenes, 2019, 3ª ediz.

[2] Ivi, pp. 56-64.

[3] R. De Cesare (Memor), La fine di un Regno: dal 1855 al 6 settembre 1860, Napoli, Grimaldi § C. Editori, 2003, pp. 77-78.

[4] Sulle condizioni di vita, sui livelli di reddito, sulle attività produttive del Regno si leggano i seguenti autori: Vittorio Daniele, Paolo Malanima, Stéplanie Collet, Stefano Fenoaltea, Carlo Ciccarelli, Vito Tanzi, Luigi De Matteo, John Davis, Antonio Carlo, Edmondo Maria Capecelatro.

[5] Risposta di Scialoja ad Avitabile, in Atti del Parlamento, sessione 1865-1866, Firenze, 1867, p. 1991.

[6] Cfr.  E.M. Capecelatro – A. Carlo, Contro la «questione meridionale». Studio sulle origini dello sviluppo capitalistico in Italia, Roma, Giulio Savelli editore, 1973 (Iª ed. 1972), pp. 141-148.

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Author: Michele Eugenio Di Carlo

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