Perché il grano non dà più grana (di Daniele Calamita)

Adam Smith fondò l’economia politica studiando il commercio del grano, partendo dell’idea che la ricchezza di una nazione stesse proprio nella capacità di produrre il prezioso alimento. Il filosofo scozzese auspicava la liberalizzazione totale del commercio del grano e il superamento delle politiche protezionistiche, che a suo parere danneggiavano i consumatori, e in particolare i lavoratori poveri, costretti a pagare di più per il pane. La liberalizzazione avrebbe propiziato una maggiore offerta, e di conseguenza una riduzione dei prezzi e una maggiore concorrenza. A giudicare dalla proteste dei produttori agricoli che in questi giorni stanno protestando in tutta Europa, le cose non sono andate proprio nel senso indicato da Smith, che però non poteva prevedere né la globalizzazione né le manovre speculative da parte dell’industria.

Nell’articolo-saggio che segue, ripercorrendo in un certo senso le orme del grande economista, Daniele Calamita – agronomo, e sindacalista esperto di temi sociali – utilizza proprio il prezzo ed il commercio del grano come chiavi di lettura del malessere che sta agitando gli agricoltori e i coltivatori. Una lettura utile e stimolante. (g.i.)

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Nelle azioni speculative che gravano sul settore primario (agricoltura) un ruolo importante viene recitato dal grano o meglio frumento duro, spesso vittima dello strapotere del mercato e dei major che operano in modo alquanto discutibili.

Come tutti sappiamo, il mercato è regolato da una legge economica fondamentale ed è la legge della domanda-offerta. Maggiore è la domanda da parte dei molini e dei pastai, più il prezzo tende a crescere; maggiore è l’offerta da parte degli agricoltori, più il prezzo scende.

Questa legge economica si applica a tutte le varie logiche del mercato, ma spesso non è perfetta e può essere facilmente inquinata, basti vedere quello che determina l’arrivo o meglio l’importazione di grano dall’estero, che porta a soddisfare e saturare la domanda, spingendo inevitabilmente i prezzi verso il basso e abbassando sensibilmente la redditività della nostra cerealicoltura.

L’ultima annata granaria (2023) si profilava buona per la cerealicoltura: una stagione climaticamente positiva e campi di grano pieni, ma purtroppo il prezzo di ritiro, partito decente, è sceso vertiginosamente, guarda caso dopo l’arrivo di grano estero.

In Capitanata si coltiva grano duro, un grano dalle ottime qualità organolettiche (tenore proteico, peso specifico ecc.), adatto per la produzione di semole, usate prevalentemente per la produzione di pasta. Il Foggiano per decenni è stato definito il Granaio d’Italia ed al tempo stesso ha anche avuto l’implementazione di importanti pastifici.

Il prezzo di ritiro del frumento duro viene stabilito in base ad alcune caratteristiche specifiche. La distinzione è in: Mercantile, Buono Mercantile e Fino. La distinzione qualitativa consta principalmente nella misurazione di un parametro fondamentale che è il peso specifico: Fino – Che ha peso specifico non inferiore a 80 kg./ettolitro; Buono mercantile – non inferiore a 78 kg./ettolitro; Mercantile – non inferiore a 75 kg./ettolitro.
Ovviamente, onde evitare critiche dagli specialisti, altri fattori che determinano il prezzo sono l’umidità, il tenore proteico ecc.., che per brevità non cito, la distinzione commerciale è riportata solo per spiegare al lettore che vi è una classificazione merceologica alla quale corrisponderà un prezzo di ritiro della materia prima.

Enunciata la classificazione commerciale, voglio provare a sintetizzare l’andamento dei prezzi dal 2014 e focalizzare l’attenzione sull’attualità e provando a rapportare il prezzo del grano al prezzo della pasta al consumatore. Con questa analisi voglio provare a mettere in evidenza con dati alla mano, quanto sia forte, anche in questa filiera, la speculazione che il mercato mette in campo e come a pagarne le conseguenze siano sempre gli stessi: chi lavora in agricoltura e i consumatori che comperano i prodotti.

Tutte le annualità prese a riferimento hanno una caratteristica generale comune: il prezzo cresce da gennaio fino ad aprile, inizia a scendere a maggio, si ferma a giugno (spesso saltano le quotazioni settimanali); dopodiché se la produzione è abbondante il prezzo tende a scendere, mentre se la produzione è scarsa riprende a salire verso luglio/agosto.

Volendo entrare nei dati (minimo-massimo), si registra che il minimo storico negli anni presi a riferimento si è avuto nella quotazione del 27/07/2016 dove il grano mercantile (la qualità merceologica più bassa) si è ritirato a 16,5 €/q, mentre il massimo si è avuto nella quotazione dal 05/11/2014 agli inizi del 2015 che è arrivato ad essere quotato 37,5 €/q.

In pratica osservando l’andamento nei vari anni (preciso che per brevità prendo a riferimento solo il grano mercantile), si vede un’aumento considerevole dal 2014 al 2015 e da quegli anni in poi un costante declino del prezzo, intervallato da una tenue ripresa; attualmente (quotazione 31/01/2024), il prezzo è di 34,5 €/q.

Voglio sottolineare e precisare che si tratta di prezzi stabiliti dalla Camera di Commercio e che sono riferiti all’ingrosso.

Vale la pena ribadire che dal Grano duro si ottiene la semola (per la pasta) e si ottiene la crusca che anche essa ha utilizzi alimentari (umani e animali) e che ovviamente ha delle quotazioni e che viene venduta (e non regalata); in pratica mi verrebbe da dire che dal grano si butta poco e niente e che quindi tutto è profitto, per tutti, tranne che per chi lo produce e ci lavora. Se per curiosità, e con molta pazienza, andiamo a vedere il prezzo all’ingrosso della pasta possiamo facilmente notare una cosa simpatica, il prezzo (all’ingrosso) della pasta NON VARIA, anzi aumenta passando dai 73-78 €/q agli attuali 99-104 €/q;.

Prendiamo a riferimento il minimo (listino n° 29 del 2016) ed il massimo (listino n° 43 del 2015).
Il minimo vedeva il grano quotato a 16,5 €/q, la semola a 28,5 €/q, la crusca a 10 €/q, la pasta a 73-78 €/q.
Il massimo vedeva il grano quotato a 37,5 €/q, la semola a 55,5 €/q, la crusca a 10 €/q, la pasta a 73-78 €/q.
la quotazione attuale (31/01/2024) vede il grano (mercantile) quotato 34,5 /p, la semola a 59,5, la crusca a 8,2 €/q e la pasta a 99-104 €/q.

A mio avviso vengono spontanee delle domande e delle riflessioni, oserei dire di logica, la prima perché il prezzo del grano (ed anche della semola e della crusca) hanno variazioni annuali, prevalentemente al ribasso, mentre la pasta (all’ingrosso da quotazione Camera di Commercio), negli ultimi anni aumenta considerevolmente.

Ognuno di NOI può provare a darsi delle risposte, io provo a dire la mia, una prima spiegazione potrebbe essere che sempre per quella regola del mercato, la domanda di pasta è pressoché standard, nel senso che essendo un popolo che basa la sua alimentazione su pasta e pane la domanda è pressoché la stessa e quindi perché l’offerta (i pastai) dovrebbero mai abbassare il prezzo di vendita? un’altra riflessione potrebbe essere che questi gruppi industriali (sempre i pastifici) hanno un potere contrattuale tanto forte da impedire quotazioni al ribasso, e poi ancora e di contro è evidente che il mondo agricolo (produttori) da un lato non programmano le produzioni e dall’altro hanno potere contrattuale pari a zero (o giù di lì), ma un’altra risposta potrebbe anche essere che il mercato viene inquinato e sfalsato da ingenti importazioni di grani esteri che condizionano pesantemente il prezzo di ritiro del grano, aumentando poi quelli che sono i margini di guadagno sulla vendita della pasta al consumo.

Con queste analisi voglio anche provare a chiarire alcuni luoghi comuni o meglio scusanti che i pastai utilizzano per giustificare l’importazione di grani esteri. Se leggiamo in rete le dichiarazioni di rappresentanti di grossi gruppi industriali della pasta sentiremo sostanzialmente due cose; la prima e che è necessario importare grani (principalmente canadesi) perché sono più proteici dei nostri, la seconda favoletta e che in agricoltura l’utilizzo del glifosate (diserbante) è necessario altrimenti le produzioni crollerebbero.

Bene proviamo ad andare per gradi aggiungendo anche alcuni altri elementi di valutazione, il primo: per ogni quintale di grano si ottengono da 65 a 80 kg di farina di semola (questa forbice così larga dipende dalla finezza di molitura) ipotizziamo una semola di media raffinazione (70 kg per quintale di grano) consideriamo anche che per produrre 1 Kg di pasta l’80% è semola, il resto è acqua, bene già con questi dati, considerato il prezzo del grano, viene fuori che il prezzo del singolo kg di pasta di € 0,13 (quando il grano era pagato 16,5 €/q) e 0,27 (oggi che il grano è pagato 34,5 €/q), mentre il prezzo all’ingrosso (NON quello al dettaglio) è di 0,99-1,04 €/kg, penso che ci sia una bella differenza, no?

Ma proviamo a sfatare il luogo comune (le favolette) che ci raccontano per giustificare le importazioni di grano estero.

Ci dicono che le importazioni sono necessarie perché i grani esteri sono più proteici, questa favola è vera?
Come dimostrato dai uno studio del CREA, ex Inram (in una passata commissione agricoltura) i nostri grani non hanno nulla da invidiare ai più blasonati grani canadesi, infatti i nostri grani generalmente si attestano su un dato medio del 11-12% (superando anche il 13%), a fronte dei 10,5 previsti per legge (tenore minimo).

A mio avviso, è evidente che fino a che sul grano non verrà valorizzata la qualità, pagandola, il mondo agricolo non avrà convenienza a fare grani di qualità superiore, il prezzo alla fine è sempre quello, aggiungo che per aumentare il tenore proteico, basta una semplice (nel momento giusto) concimazione a base di potassio e le proteine aumentano di conseguenza.

Un’ultima considerazione e analisi la voglio sviluppare rispetto ai costi di produzione ed alle redditività di un’azienda agricola cerealicola. A mo’ di esempio considero un’azienda che si rivolge per le operazioni colturali a contoterzisti; le operazioni colturali cronologicamente sono: aratura di fondo, ripasso e affinamento, semina, rullatura, diserbo, mietitura.

Il totale dei costi varia da 500 a 600 €/ha ai quali va aggiunto il seme del grano altri 220 €/ha circa (90 €/q), il concime diciamo altri 100 €/ha, il diserbante altri 70-80 €/ha e il trasporto del grano al deposito pari a 1 €/q; volendo ipotizzare una produzione media di 30 q/ha avremo un totale costi variabile da 920 €/ha a 1.030 €/ha; se consideriamo sempre i 30 q/ha e la quotazione attuale di 34,5 €/q avremo un profitto lordo di 1.035 €/ha; ovviamente si tratta di profitto lordo al quale vanno detratti la tassazione e le spese aggiuntive.

Per capirci, io agricoltore semino a novembre-dicembre e dopo 7 mesi di investimento e lavoro (con tutti gli imprevisti meteorici) avrò un profitto che se va bene è di 5 Euro, si esatto 5 Euro; ecco spiegata una delle ragioni della protesta attuale: fino ad oggi i cerealicoltori riuscivano a sbarcare il lunario con il contributo europeo (chiamata comunemente integrazione) che con l’entrata in vigore della nuova PAC 2023/2027 vede una rimodulazione consistente degli aiuti comunitari.

Per concludere, è evidente che qualcosa necessariamente va fatta da un lato per tutelare il mondo agricolo consentendo una giusta redditività aziendale, onde evitare l’abbandono di un settore strategico per il Paese e dall’altro per tutelare i consumatori che pagano profumatamente per questa produzione e che dovrebbero essere tutelati rispetto ad un prezzo giusto rapportato ad una giusta qualità.

Daniele Calamita

[Foto d’apertura di Sasun Bughdaryan su Unsplash ]

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Author: Daniele Calamita

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