Il Senato ha licenziato, qualche giorno fa, l’aberrante autonomia regionale differenziata che non solo non risolverà la secolare questione meridionale, ma l’aggraverà, irreversibilmente.
Il peggio è che all’approvazione hanno contribuito tanti parlamentari che fanno parte della maggioranza di governo. Michele Eugenio Di Carlo, nell’inviarmi la diciannovesima puntata del suo affascinante viaggio nella storia del meridionalismo: «Alla luce del voto all’autonomia differenziata dei nostri parlamentari cosa è cambiato nella nostra classe dirigente?»
Sacrosanto interrogativo, alla cui risposta fornisce utili chiavi di lettura l’articolo che state per leggere in cui Di Carlo parla di un testo fondamentale: «La piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia» di Gaetano Salvemini. Se volete approfondire, potete trovare l’importante testo del meridionalista di Molfetta a questo indirizzo web: https://www.bibliotecaginobianco.it/fliplibri/SAL04-02/510/ (g.i.)
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Il 16 maggio 1911, Gaetano Salvemini pubblica su «La Voce», diretta da Giuseppe Prezzolini, un piccolo saggio intitolato La piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia [1]. L’intellettuale molfettese ha da poco dato alle stampe Il Ministro della malavita, un vero e proprio atto di accusa contro la gestione clientelare e illegale delle elezioni da parte del Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. Salvemini è in crisi con il Partito Socialista che sta per lasciare anche a causa della sua «deviazione oligarchica» [2] che asseconda il giolittismo rinunciando alla tutela delle masse contadine del Mezzogiorno in favore del protezionismo industriale; incontra ostacoli nella stessa rivista «La Voce» e comincia a elaborare l’idea di un nuovo progetto editoriale: infatti, a fine anno, fonda «L’Unità» con il contributo determinante di Giustino Fortunato, che trova nel giovane molfettese l’erede naturale a cui affidare l’evoluzione delle sue tesi meridionaliste.
Figura 1. Gaetano Salvemini
Secondo Salvemini, gli esponenti della piccola borghesia intellettuale, «non avendo nulla da fare», sono diventati i professionisti della «politica peggiore», presenti in tutti i partiti pronti a fornire loro «i giornalisti, i libellisti, i galoppini elettorali, i conferenzieri, i propagandisti» [3]. Se prima del 1860, al fine di elevarsi socialmente e economicamente, la massima aspirazione delle famiglie della piccola e media possidenza era quella di avviare i figli alla carriera ecclesiastica, dopo il 1860 e la confisca dei beni ecclesiastici esse sono «portate ad avviare i loro figli quasi esclusivamente verso le professioni liberali e gl’impieghi».
Il politico pugliese riteneva la classe intellettuale del Mezzogiorno proveniente dalla borghesia agraria di «una ignoranza mostruosa e crassa», vestendo come caratteristica psicologica fondamentale «la vuotaggine, la vigliaccheria, il nessun senso di dignità». Per spiegarsi meglio citava ad esempio gli intellettuali della Basilicata, la regione più povera e abbandonata d’Italia dopo la Sardegna: davanti agli enormi problemi inerenti lo sviluppo e l’economia non trovavano di meglio che chiedere la sostituzione del nome della regione in Lucania, coprendo di «insolenze un uomo come Giustino Fortunato». L’unico merito di intellettuali del genere sembrava quello di avere un santo protettore «per andare avanti nella scuola, nel tribunale, nella banca, nel municipio, a Roma».
Meridionali intelligenti? No, assolutamente no! Bastava recarsi presso un circolo qualsiasi di galantuomini per rendersene pienamente conto. Ad essere intelligenti erano invece i poveri contadini, le cui «attitudini al lavoro e al risparmio» venivano fuori evidenti appena erano costretti a emigrare. Tuttavia nel Mezzogiorno d’Italia era proprio la classe piccola borghese intellettuale ad avere «il monopolio dei poteri politici e amministrativi», considerato che per la legge elettorale del 1882 il popolo rurale era del tutto escluso dal voto e dalla vita pubblica.
Le lotte amministrative, quindi, non dovendo tener conto degli interessi di contadini e operai analfabeti, si svolgeva essenzialmente per l’accaparramento degli impieghi pubblici da parte di laureati e diplomati e per l’ottenimento di una fornitura municipale, di una concessione di suolo pubblico, del condono di una multa da parte della classe dei piccoli esercenti e artigiani ammessi al voto.
Guai ai vinti! Se impiegati a tempo determinato venivano licenziati e sostituiti con i vincitori, se «impiegati statali» venivano sottoposti a «inchieste minuziose, tartassati, tormentati in tutti i modi» e destituiti appena possibile. Stessa sorte subivano i fornitori e gli appaltatori schierati dalla parte perdente. La vita pubblica meridionale descritta da Salvemini nel 1911 è vista essenzialmente come uno scontro tra clientele avverse, impegnate elettoralmente solo alla ricerca della soddisfazione di un utile personale a spese del bilancio comunale e nella totale noncuranza degli interessi generali della comunità, nell’ambito di un gioco degradante e miserabile in cui riusciva a galleggiare la peggiore classe dirigente d’Italia e d’Europa: la piccola borghesia intellettuale del Mezzogiorno. Il deputato meridionale eletto da queste clientele diventava il rappresentante di «camorre di professionisti affamati» e il suo compito era quello ottenere «l’acquiescenza della prefettura, della magistratura, della questura, alle cattive azioni dei suoi seguaci, e votare in compenso la fiducia al ministero in tutte le votazioni per appello nominale».
Dove, come nel Mezzogiorno, gli elettori erano pochi, perché i contadini analfabeti non erano ammessi al voto, il Governo in carica non incontrava ostacoli nell’ «intimidire nelle elezioni le poche centinaia di persone aderenti stabilmente al partito» avverso e nel corrompere le poche centinaia di persone che non avevano un orientamento politico definito. L’intimidazione messa in atto dal Governo, tramite il delegato di pubblica sicurezza nominato dal prefetto, giungeva a livelli inverosimili di illegalità: utilizzo di criminali per minacciare gli avversari politici, provocazioni finalizzate a incarcerare ingiustamente gli oppositori, fino a instaurare un vero e proprio stato d’assedio con squadre di elettori governativi arricchite di questurini travestiti e di malavitosi per costringere gli elettori avversi a lasciare il paese o a restare chiusi in casa il giorno delle elezioni.
Erano «sistemi di oppressione e di corruzione» impiegati sin dal 1860, ma che Giovanni Giolitti aveva reso «invincibili e […] insuperabili», benché le responsabilità personali e politiche del piemontese senza scrupoli non scagionavano quelle della piccola borghesia meridionale, «prima radice del male».
Salvemini condivideva la tesi di Sidney Sonnino: se lo Stato non fosse intervenuto «esclusivamente a difendere la piccola borghesia delinquente e putrefatta contro il malcontento dei contadini», l’Italia meridionale avrebbe trovato da sola la via per risolvere le problematiche legate all’antagonismo esasperato tra classi sociali e quelle di giustizia sociale. Ed era convinto, sempre citando Sonnino, che gli «italiani delle altre province», avendo impedito che ciò avvenisse, avessero la responsabilità di aver «legalizzato l’oppressione esistente» e assicurato «l’impunità dell’oppressore», dato che anche l’amministrazione della giustizia era in mano alla classe dominante.
Michele Eugenio Di Carlo
N O T E
[1] G. Salvemini, La piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia, «La Voce», 16 maggio 1911.
[2] G. Salvemini, La deviazione oligarchica del movimento socialista, prefazione in Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano, Bologna, Cappelli, 1922.
[3] Le citazioni, non diversamente indicate, sono tutte anche di seguito tratte da G. Salvemini, La piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia, in Antologia della questione meridionale, a cura di Bruno Caizzi, Milano, Edizioni di comunità, 1950, pp. 351-374.
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