Capitanata? E se tornassimo a chiamarla Daunia?

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Sorpresi dal titolo? Vi spiego, ma abbiate la pazienza di leggere fino in fondo.
Girovagando in quell’inesauribile serbatoio di conoscenza che è la Biblioteca Gino Bianco, mi sono imbattuto, in un articolo di notevole interesse e importanza sulla Capitanata e sul suo secolare destino di «terra di servizio». (Potete leggerlo o scaricarlo alla fine del post)
«La vecchia Capitanata è veramente morta?» comparve, a firma di Claudio Contini, sul numero di giugno della rivista anarco-libertaria Volontà, di cui Contini fu un assiduo collaboratore.
Partendo dalla tesi che per «trovare una spiegazione, od almeno una grande parte di essa, all’attuale situazione economica e sociale» del Foggiano «è necessario rimontare, secolo dopo secolo, nel passato», l’autore prende in esame l’evoluzione storica del territorio, con rigore analitico ma anche apprezzabile capacità di sintesi.
Il percorso trae inizio da quando la Capitanata «si chiamava ellenicamente Daunia, ed era una regione dove la fertilità delle campagne gareggiava con la prosperità delle città, dedite al commercio marittimo dei prodotti agricoli.» «Questa ricchezza – aggiunge – fu indirettamente la causa della sua miseria.»
Interessante, vero? L’articolo prosegue passando in rassegna le diverse spoliazioni di cui questa terra è stata vittima nel corso dei secoli. Secondo Contini particolarmente feroce, e decisiva per le sue future sorti, fu quella messa in atto dalle truppe cartaginesi di Annibale che «compiono su questa ferace pianura di oltre mezzo milione di ettari una sistematica opera di saccheggio e di devastazione, davanti alla quale le popolazioni reagiscono rifugiandosi sulle colline e sulle montagne.»
Da allora, «per circa venti secoli nel Foggiano non si parlerà che di pecore e la sua storia (anche in seguito) non è che una accusa senza attenuanti contro la rapacità delle varie dinastie e classi dominanti susseguitesi l’una all’altra che non hanno saputo far altro se non collaborare al crollo economico e sociale della regione daunia (e delle altre regioni meridionali) iniziato con le invasioni belliche.»
Per Contini, la provincia di Foggia rappresenta un caso emblematico della questione meridionale. È significativo che il titolo rechi, quale occhiello, «aspetti della questione meridionale».
L’autore non ha dubbi: la transumanza e l’utilizzazione della terra per il pascolo delle greggi sono stati i vincoli per hanno impedito o ritardato il suo decollo agricolo e di conseguenza il suo sviluppo, innescandone, anzi, il sottosviluppo: «Durante tutto il Medio Evo la tassa di transito rappresenta la forma più sostanziale ed allo stesso tempo più facile con la quale i varii sovrani dell’Italia meridionale riempiono i loro forzieri.»
Contini ne ha per tutti: da Federico II che elevò al rango di ufficiali i responsabili degli allevamenti reali, ad Alfonso I d’Aragona, per finire ai Borbone che vanificano gli effetti della legge Murat che aveva abolito l’imposta di transito sulle pecore e concesso la libertà di coltivazione dei terreni.
Con la fine di questo sistema feudale sancita dall’avvento dello Stato unitario le cose non si modificano granché: alla pastorizia subentrano il latifondo, le colture estensive.
Il progetto di bonifica e di colonizzazione del Tavoliere promosso dal regime fascista non giunge ai risultati sperati e non arride sorte migliore alla Riforma Agraria, «soffocata da un burocratismo ben retribuito e dalle preoccupazioni politiche che hanno determinato, da una parte, un tiepido attentato alla grande proprietà e, dall’altra, la distribuzione del ricavato con criteri elettorali.»
«La situazione della Capitanata – chiosa Guido Contini – è purtroppo una nuova dolorosa accusa contro una società che antepone gli interessi particolari a quelli generali.»
La cosa che mi ha più colpito dell’analisi di Contini – e vengo così al punto – è la suggestiva contrapposizione storica tra la Daunia Felix, terra prospera, fertile e ferace e la Capitanata, vessata dal giogo dei governanti di turno.
Non è un caso che lo stesso toponimo «Capitanata» tragga il suo etimo dal linguaggio della burocrazia. Deriverebbe infatti dai «catapani», i governatori bizantini che amministravano l’Italia, quando essa era un provincia dell’Impero romano d’Oriente.
E poi, se è vero che omen nomen, la parola già suggerisce un’idea di sottomissione: capitanata nel senso di guidata, capeggiata, costretta al seguito di qualcuno.
E se quindi la Capitanata tornasse a chiamarsi Daunia? Dite la vostra commentando il post.
Geppe Inserra

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Author: Geppe Inserra

3 thoughts on “Capitanata? E se tornassimo a chiamarla Daunia?

  1. Geppe carissimo, intanto grazie per questa tua forte e incessante capacità di leggere la storia. L’articolo è molto bello anche apre riflessioni critiche su un versante forse non ancora esplorato bene in fondo. Trascurando le vicende secolari e venendo ai nostri giorni, io penso che recuperare la cultura pastorale senza lasciare tutto lo spazio alla cultura contadina sia stato un errore. Che ne pensi ?

    1. Caro Micky, grazie per il tuo apprezzamento. Purtroppo mi pare che né la cultura pastorale (che comunque a Foggia è sempre stata residuale, in quanto i pastori e i proprietari delle greggi erano abruzzesi) né quella contadina siano state recuperate come avrebbero meritato, basti pensare a quanto poco sia rimasto dei tratturi, del commercio della lana, e della cultura (e non solo coltura) del grano attorno alla quale ruota il piano delle fosse, la piazza ovale cantata da Ungaretti. Transumanza ed agricoltura hanno piuttosto contribuito a fare di Foggia una grande città terziaria, che però non è riuscito a utilizzare fino in fondo questa opportunità.

  2. Capitanata o Daunia, per me non è importante come ora chiamare questa provincia, dato che ogni denominazione rappresenta una caratterizzazione dei periodi storici attraversati dalla nostra terra.
    certo, la lettura del Contini (a proposito, adoro queste ricerche e chi le esegue!) la ritengo molto plausibile, ma per dare una mia opinione, in particolare, sulla situazione di perenne crisi odierna del settore primario, parte essenziale della cosiddetta “questione meridionale”, credo ci sia bisogno di migliorare la base culturale su cui si fonda, per essere più capace di comprendere quali siano le impellenze delle nostre comunità, per cambiare l’innata diffidenza a mettere insieme le forze e saper fare fronte comune ai problemi e per cogliere le opportunità provenienti anche dai mercati esteri. ricordiamoci, però, che per risollevarci dalla polvere, tutti noi, dobbiamo sconfiggere un cancro, la criminalità organizzata, che, a mio modesto avviso, stiamo ancora contrastando con armi spuntate (leggi troppo garantiste ed interpretabili al bisogno, tribunali oberati, carceri non adeguate, personale sottodimensionato, scarsi finanziamenti).

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