La quindicesima tappa del lungo e affascinante viaggio nella storia del meridionalismo, in cui Michele Eugenio Di Carlo ci sta accompagnando con maestria e rigore, dimostra che la storia non è un inutile orpello dal passato, ma uno strumento indispensabile per comprendere la contemporaneità. Raccontando ed investigando le ragioni della rottura di Gaetano Salvemini con il Partito Socialista, lo scrittore garganico affronta la questione cruciale del suffragio elettorale e dell’evidente deficit di democrazia provocato da un sistema elettorale che, consentendo il voto solo a chi sapesse leggere e scrivere, penalizzava duramente il Mezzogiorno, in cui abbondava l’analfabetismo, e, di conseguenza, mortificava la rappresentatività del Sud in Parlamento. A ciò s’aggiungeva la tendenza della Sinistra a privilegiare gli interessi degli operai del Nord, disinteressandosi delle masse bracciantili del Sud. Il ritardato suffragio universale e il protezionismo industriale sono stati due fattori d’innesco molto seri della questione meridionale.
Più di un secolo dopo gli eventi che portarono alla lacerante rottura tra il geniale intellettuale pugliese e il Partito Socialista, i termini delle questioni sul tappeto sono evidentemente molto cambiati, ma la sostanza resta, più o meno la stessa. Si torna a parlare di gabbie salariali che non avvantaggeranno i lavoratori meridionali, il regionalismo differenziato, voluto anche da una parte della Sinistra, farà il resto.
Ecco perché vi suggerisco caldamente di leggere questo articolo, profondo e illuminante, e di farlo con attenzione. Per vincere le sfide del futuro, i meridionali devono diventare, prima di tutto, meridionalisti. (g.i.)
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Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, l’autoritarismo illiberale sabaudo che aveva sciolto le formazioni anarchiche, repubblicane, il Partito dei lavoratori italiani diventato poi Partito Socialista, aveva dovuto retrocedere dal tentativo di imporre una legislazione liberticida permanente contro le masse popolari, che erano state affrontate dallo Stato ad ogni protesta, sciopero, tumulto con sanguinose violenze militari. Da quel traumatico decennio erano uscite rafforzate le minoranze rivoluzionarie e progressiste che si erano opposte decisamente ai governi liberali e alla monarchia sabauda e che rappresentavano i ceti subalterni, tanto che nelle elezioni del 1900 radicali, socialisti e repubblicani, che costituivano in Parlamento l’Estrema Sinistra, venivano premiati con l’aumento dei consensi [1].
L’inizio del Novecento vedeva l’affermarsi del giolittismo, che decisamente avviava una svolta nell’ambito dell’amministrazione pubblica, dei poteri locali, dello stato sociale, del divario economico e infrastrutturale tra Nord e Sud.
Figura 1. Gaetano Salvemini
Ad inizio Novecento, il giovane Gaetano Salvemini aveva già ben chiari e definiti i termini della battaglia riformista, civile e democratica che intendeva percorrere a tutela degli interessi del mondo contadino del Mezzogiorno: federalismo, liberismo economico, suffragio universale. Ma l’avvento al potere di Giuseppe Zanardelli nel 1901, che inaugurava l’Età giolittiana, vedeva frantumate le sue aspettative riguardanti una svolta nelle politiche doganali a sostegno del Mezzogiorno e, in particolare, a tutela delle sue masse contadine. Successivamente Giovanni Giolitti, al fine di modernizzare il Mezzogiorno, sceglieva la strada delle opere pubbliche, proseguendo lungo la linea tracciata del protezionismo industriale e dell’accentramento burocratico; peraltro, negando una riforma tributaria necessaria a ridurre il peso gravante sulle masse rurali del Mezzogiorno e una riforma elettorale al fine di mettere i contadini meridionali, per lo più analfabeti, nelle condizioni di esercitare il diritto di voto, fino ad allora negato.
Lo stesso movimento democratico si frantumava, in particolare nel Partito Socialista. La linea turatiana si abbandonava al giolittismo, mentre Salvemini, aspro contestatore di Giolitti, cercava di creare le premesse per un meridionalismo rivoluzionario antisistema, congeniale poi alle future tesi di Gramsci, Dorso e Fiore. Il molfettese, nel saggio Il ministro della mala vita [2], muoveva accuse precise a Giolitti per come le prefetture, le forze dell’ordine, addirittura la malavita, venivano utilizzate per negare il libero esercizio del voto a quei pochi avversari politici che avevano il diritto di recarsi alle urne in relazione alla legge elettorale del 1882 [3], la quale consentiva il voto solo a chi sapeva leggere e scrivere. Atti delinquenziali che secondo Salvemini, testimone dei fatti di Gioia del Colle, erano possibili proprio perché non esisteva il suffragio universale ed era praticamente facile controllare i pochi che nel Mezzogiorno avevano il diritto di recarsi alle urne. Pochi, anche perché, secondo Salvemini, l’analfabetismo nel Mezzogiorno era molto più diffuso che nelle regioni del Nord.
La rottura definitiva di Salvemini con il Partito Socialista avviene nel 1911. L’intellettuale pugliese ne chiarisce le cause anche nel 1922, nella prefazione del testo Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano [4]. In questa prefazione, non a caso intitolata La deviazione oligarchica del movimento socialista, Salvemini traccia un resoconto delle politiche del Partito Socialista dal 1901 al 1914, dirette esclusivamente a tutelare i tre gruppi sociali che costituivano la massa elettorale socialista nell’Italia settentrionale: a) gli operai delle industrie con leggi sociali, mai estese «ai lavoratori della terra», e con il rafforzamento delle politiche protezioniste per impedire lo sfacelo delle industrie, ed assicurare lavoro ai “poveri operai” minacciati dalle crisi; b) le organizzazioni agricole della pianura padana con continue concessioni di lavori pubblici alle cooperative di riferimento, al fine di combattere la disoccupazione; c) gli impiegati pubblici che finivano per garantire allo Stato un maggior centralismo burocratico.
Tutte le riforme di interesse generale erano trattate con indifferenza: «Riforme tributarie, autonomia comunale, riforme doganali, riforme militari, riforma elettorale, legislazione sociale per tutti i lavoratori», salvo parlarne a ridosso delle feste del 1° maggio, quando si acuivano le proteste dei lavoratori in specie contro le spese militari e il dazio sul grano. Ma erano solo «fuochi pirotecnici d’occasione», considerato che le spese militari aumentavano e i dazi industriali erano protetti perché assicuravano lavoro al proletariato industriale [5].
Mentre si lasciava l’economia del Mezzogiorno sprofondare nella crisi più nera, persino i provvedimenti del 1904 e del 1911, voluti per abbattere l’analfabetismo delle masse rurali meridionali costruendo nuove scuole, erano «congegnati in modo da essere efficaci quasi esclusivamente nelle zone più progredite dell’Italia settentrionale, lasciando quasi illeso il problema dell’Italia meridionale» [6].
I congressi socialisti si occupavano sempre della tutela della dignità e della salute dei lavoratori, ma «nei lavori preparatori di tutte le leggi sociali e nelle contrattazioni parlamentari i contadini affondavano sempre, […] non un solo provvedimento di legislazione sociale, infatti, tra il 1901 e il 1914, ha riguardato mai il proletariato rurale». Scioperi, disordini, tumulti erano consentiti nelle aree settentrionali del Paese dove i deputati socialisti avevano forte influenza, ma nel Sud «era un continuo macello di contadini, al primo accenno di sciopero e di tumulto» [7]. Violenze che, secondo lo storico pugliese, non turbavano affatto i sonni dei socialisti settentrionali, visto che per loro i contadini meridionali non erano «buoni ad altro che a farsi stupidamente ammazzare» [8], mentre secondo l’onorevole Bonomi le stragi, nemmeno più degne di interrogazioni parlamentari sugli eccessi delle forze dell’ordine, andavano spiegate con l’«insufficiente educazione politica» degli stessi contadini [9].
Riguardo alla necessaria riforma della legge elettorale, Salvemini accusava i socialisti settentrionali di essere stati indifferenti al suffragio universale, se non ostili, fino alla primavera del 1911: «Per essere elettori in Italia, ripetevano questi curiosi socialisti apologisti del suffragio limitato, basta andare a scuola. Perché i “trogloditi” del Mezzodì non vanno a scuola? Perché i socialisti meridionali, invece di domandare il suffragio universale a chi ha ben altro da fare non aprono scuole per gli analfabeti?» [10]
Tuttavia, nonostante l’incuranza dei socialisti del Nord che non si rendevano conto degli scarsi progressi elettorali fatti dal 1900 al 1914, i pochi sostenitori della riforma elettorale, specie se meridionali, «fischiati nei Congressi e derisi», ottenevano il risultato che il suffragio universale venisse preso in considerazione. Ma, alla vigilia del 1° maggio 1910, i deputati socialisti votavano «la fiducia al ministero Luzzatti [11], dichiarandosi soddisfatti della promessa, non del suffragio universale, ma di una “cauta estensione” del suffragio» [12]. Un’estensione, che escludendo gli analfabeti nel corpo elettorale, destava le proteste dei sostenitori del suffragio universale, visto che lasciava senza diritto di voto la maggioranza dei contadini meridionali, mentre semplificava l’iscrizione nelle liste elettorali di coloro che sapevano leggere e scrivere. Per Salvemini, «ancora una volta la riforma per tutti si trasformava in una riforma a favore dei più forti e contro i più deboli; le organizzazioni settentrionali raggiungendo per sé il suffragio quasi universale, si sarebbero disinteressate definitivamente della riforma generale» [13].
Giovanni Giolitti cavalcava la protesta dell’Estrema Sinistra e il rinvio dell’approvazione della legge elettorale di Luttazzi causava la crisi di governo con la fuoriuscita del Partito Radicale da una maggioranza ampia, composta anche dalla Destra e dalla Sinistra storica. A Luttazzi succedeva proprio Giolitti, che inaugurava il suo IV° governo e predisponeva una legge elettorale che veniva approvata il 30 giugno 1912.
Un suffragio non proprio universale, considerato che il corpo elettorale passava dal 6,9% della legge del 1882 al 23,2%. Infatti, i giovani maschi dai ventuno ai trenta anni per essere inseriti nelle liste elettorali dovevano ottenere la licenza media, aver svolto il servizio militare o aver versato imposte annue per almeno 19,80 lire. Inoltre, la proposta di far votare le donne veniva respinta a larga maggioranza.
Michele Eugenio Di Carlo
N O T E
[1] Si veda G. C. Jocteau, La lotta politica e i conflitti sociali nell’Italia liberale, in La storia. L’età dell’imperialismo e la I guerra mondiale, vol. 12, Milano, Mondadori, 2007, pp. 304-321.
[2] G. Salvemini, Il ministro della mala vita: notizie e documenti nelle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale, Firenze, Edizioni della Voce, 1910.
[3] La legge elettorale del 1882, approvata dal IV° governo Depretis, sostituiva quella del 1860 (Legge n. 4515 del 17 dicembre 1860), derivante dalla legislazione piemontese. Venne poi modificata nel 1891 e sostituita nel 1912, durante la IVª esperienza di governo di Giolitti, da quella comunemente detta a suffragio universale maschile. La legge elettorale del 1882 estendeva il suffragio ai maschi di almeno 21 anni che sapessero leggere e scrivere o che pagassero almeno 19,80 lire di imposte annue, portando gli elettori dal 2,2 % al 6.9%. La legge elettorale del 30 giugno 1912, proposta da Giolitti, allargava la base elettorale a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 30 anni. I cittadini maschi sotto i 30 anni, compiuti i 21 anni, avevano diritto al voto a condizione di aver pagato imposte annue per almeno 19,80 lire, oppure di aver ottenuto la licenza media inferiore, oppure di aver svolto il servizio militare. La massa degli elettori passava così dal 6,9% al 23,2% dei cittadini.
[5] G. Salvemini, La deviazione oligarchica del movimento socialista, Prefazione in Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano, Bologna, Cappelli, 1922.
[6] Cfr. Ivi, pp. 327-329.
[7] Ivi, p. 329.
[8] Ivi, p. 330.
[9] Ivi, p. 331.
[10] Ivi, p. 333.
[11] Ibidem.
[12] Luigi Luzzatti, più volte ministro del Tesoro e delle Finanze, veniva nominato Presidente del Consiglio il 31 marzo 1910 da Vittorio Emanuele III, quale successore di Sonnino. La maggioranza di governo era ampia e comprendeva la Destra storica, la Sinistra storica, il Partito Radicale.
[13] G. Salvemini, La deviazione oligarchica del movimento socialista, Prefazione in Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano, p. 334.
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