L’undicesima tappa dell’appassionante viaggio in cui ci sta conducendo il brillante ingegno di Michele Eugenio Di Carlo è dedicata ad un personaggio chiave della storia del meridionalismo: Guido Dorso. Lo scrittore ed intellettuale irpino ha due grandi meriti: l’aver teorizzato che il processo di unificazione dell’Italia fu, in realtà, una “conquista regia” e non un vero e proprio processo unitario, e l’aver individuato nel trasformismo della classe dirigente meridionale una non secondaria ragione della questione meridionale stessa.
Problemi che restano tuttora irrisolti, così come quello del Risorgimento incompiuto. L’analisi di Dorso rappresenta un punto di riferimento ancora molto attuale per quanti vogliano approfondire la tematica. Vi invito quindi ad un’attenta lettura dell’articolo-saggio di Di Carlo, che non smetterò mai di ringraziare per il grande contributo di conoscenza e per gli stimoli di riflessione che sta regalando ad amici e lettori di Lettere Meridiane. A quanti fossero interessati, segnalo che il saggio La rivoluzione meridionale di cui Michele parla, è disponibile on line alla pagina web che potete raggiungere cliccando qui. Buona lettura. (g.i.)
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Nell’aprile del 1926, don Luigi Sturzo scriveva una recensione de «La rivoluzione meridionale», il testo che avrebbe reso famoso Guido Dorso, pubblicato a Torino da Piero Gobetti [1]. Il prete siciliano, che aveva messo al centro del programma del Partito Popolare la questione meridionale e che aveva disquisito di un «risorgimento meridionale» avente per protagonisti gli stessi meridionali («Il mezzogiorno salvi il Mezzogiorno»), che nel memorabile discorso del 18 gennaio 1923 a Napoli aveva chiarito che la svolta per il sud Italia non poteva che partire dall’espansione delle relazioni con i paesi del Mediterraneo, oltre che dal decentramento legislativo e amministrativo, trovava storicamente valido «il tentativo di Guido Dorso di riportare il problema meridionale nelle fasi della storia d’Italia dall’unificazione al momento presente, e di attribuirvi quasi esclusivamente un contenuto politico» [2].
Era stato trasparente Dorso nell’indicare nel processo unitario una «conquista regia» piemontese del Regno delle Due Sicilie, avvenuta col pieno concorso delle élites militari e aristocratiche piemontesi, della borghesia rurale conservatrice del Mezzogiorno, generando ulteriori disuguaglianze territoriali e disconoscendo valori fondamentali quali i diritti civili dei ceti popolari.
Figura 1. Guido Dorso
Guido Dorso era nato ad Avellino nel 1892 e, come scrive Francesco M. Biscione nel Dizionario Biografico degli Italiani, studioso sin da giovanissimo di filosofia politica, esprimeva «un orientamento radicale, democratico, anticattolico, non alieno da suggestioni massoniche e da un afflato idealistico e volontaristico…» [3]. Nel 1911 si iscriveva alla facoltà di Giurisprudenza a Napoli e teneva una conferenza su Giuseppe Mazzini, indicante un chiaro «approdo militante alla sua formazione filosofica», rafforzato dagli studi di politica e dal rapporto con Arturo Labriola [4]. L’interventismo del giovane Dorso era strettamente legato alla possibilità che le conseguenze della guerra creassero le condizioni per liberarsi del protezionismo giolittiano, oltre che delle mediazioni governative trasformiste mediante un riformismo socialista, in modo da permettere finalmente al Mezzogiorno di aprirsi ai mercati del Mediterraneo [5].
Laureatosi nel 1915, finita la guerra, Dorso dirige dal 1923 Il Corriere dell’Irpinia, destando l’attenzione dell’editore torinese Piero Gobetti che gli offre la vetrina nazionale de La rivoluzione liberale. È in questo contesto culturale che matura il testo La rivoluzione meridionale. Saggio storico-politico sulla lotta politica in Italia, pubblicato nell’estate del 1925. Il saggio espone magistralmente, utilizzando espressioni terminologiche inedite, una critica analitica alla «conquista regia» e al «trasformismo» delle classi dirigenti italiane e meridionali in particolare.
Figura 2. L’edizione Gobetti del 1925 de “La rivoluzione meridionale”.
Nella prefazione della seconda edizione, datata settembre 1944, pubblicata da Einaudi, Dorso precisa che la prima edizione del 1926 gli aveva scatenato contro «mille diavoli» e mille critiche di cui godeva, perché finalmente vedeva aprirsi un dibattito sul problema meridionale, sempre ignorato sotto le finte insegne patriottiche della libertà e della democrazia. Un dibattito che si interrompeva mestamente a causa della soppressione della libertà di stampa, quando i soli che avevano espresso apprezzamento per il suo lavoro storico-politico erano stati Zuccarini, Gramsci, Fiore, Sturzo e i giornali sardi.
Motivo che lo mosse verso una nuova edizione, affinché i compromessi e le mediazioni della classe dirigente trasformista italiana, da sempre finalizzati alla conservazione di un potere malato, non continuassero a servire il privilegio di gruppi di interesse ristretti e, soprattutto, non si riproponessero in un periodo storico, quello della fine del fascismo, che Dorso riteneva rivoluzionario per il futuro del destino dell’Italia e del Mezzogiorno; un periodo che in uno testo pubblicato postumo nel 1949 avrebbe definito L’occasione storica [6].
Se il Risorgimento aveva colto l’obiettivo dell’unificazione degli stati preunitari italiani, aveva invece totalmente fallito sul piano ideale delle libertà, dei diritti, dell’uguaglianza sociale e territoriale. Anzi, le esigenze di conservare unito il nuovo Regno avevano più volte comportato la necessità di sopprimere le pur deboli garanzie dello Statuto albertino con dichiarazioni ripetute di stato d’assedio, specie nel Mezzogiorno. In definitiva, apparve subito chiaro che «l’espansione territoriale della monarchia sabauda non era il processo politico più adatto per assicurare all’Italia un vero regime liberale» [7] e che il Risorgimento era ancora un obiettivo da condurre a termine, visto il fallimento del federalismo repubblicano di Cattaneo e Ferrari e il «dissolvimento di tutte le correnti ideali» che si erano misurate lungo «la direttiva della rivoluzione, nel grigio incedere della conquista piemontese». Una «conquista regia» che Cavour aveva indirizzato «nello stretto circolo di conservazione della monarchia piemontese», affogando «l’incendio romantico del Risorgimento» [8]. Francesco Saverio Festa evidenzia come sia Carlo Cattaneo il riferimento dell’avellinese, «in quanto è vivo in Dorso il tentativo di una sintesi “tra messianismo mazziniano e federalismo cattaneano”, propria dei neorepubblicani della “Critica Politica”» [9].
La conquista regia aveva trovato nel Mezzogiorno «il suo campo classico di applicazione». Un Mezzogiorno che scopriva «all’indomani dell’impresa garibaldina, di essere stato conquistato» [10] e che, secondo i conquistatori liberali, doveva cercare le responsabilità della sua triste condizione nella dinastia borbonica. Una tesi che Dorso contrastava, retrocedendo storicamente il tempo delle colpe al periodo vicereale e riconoscendo che «la politica borbonica fu quasi sempre superiore alla sua fama, e che molte colpe attribuitele furono piuttosto il risultato di una complessa eredità storica». Carlo di Borbone e il figlio Ferdinando IV tentarono di «liberarci dal peso morto del feudalesimo» con la Prammatica del 1792, rimasta «sì senza utile effetto, ma memorabile per il suo significato, col quale, si davano a censo, con assoluta prelazione dei nullatenenti, i demani, sia feudali che universali» [11]. La lotta alla feudalità fu completata nel 1806 dagli invasori francesi, ma le ottime giustificazioni giuridiche in funzione della costituzione della piccola proprietà contadina non trovarono applicazione pratica dinanzi alla prepotenza e alla protervia impunita dei latifondisti terrieri, che si erano semplicemente sostituiti ai baroni.
Una borghesia rurale rappresentata non dai soli proprietari terrieri, ma da una struttura sociale che comprendeva il ceto medio impiegatizio, oltre a burocrati, professionisti, magistrati, amministratori pubblici. Secondo Dorso, questa borghesia rurale conservatrice e parassitaria, diventata rivoluzionaria per non aver trovato sponda nell’assolutismo borbonico, costituì «un formidabile equivoco» fatale alla dinastia nata con Carlo di Borbone, e tale da porre «le prime basi alla conquista piemontese», in quanto liberali e borghesi napoletani si rivolsero ai sabaudi, trovando «nel centralismo piemontese l’incarnazione giuridico-burocratica di quell’ideale politico, verso cui, invano, avevano cercato di spingere l’assolutismo borbonico». Un «ideale politico» puramente rappresentato dall’interesse di consolidare e rafforzare il proprio «dominio regionale» nell’ambito del contesto storico dell’unificazione italiana [12].
Il compromesso trasformistico, – perché legato a interessi non generali ma ristretti ˗, tra aristocrazia militare sabauda e liberalismo conservatore napoletano, era così sancito e, per mezzo di esso, la conquista regia del Mezzogiorno era diventata obiettivo comune e realizzabile. Gli usurpatori dei demani avrebbero rinsaldato ed esteso i propri latifondi e il proprio potere locale, mentre la questione demaniale si rendeva insolubile, diventando parte fondante della questione meridionale.
Ed è proprio ˗ come più volte ricordato da Giustino Fortunato ˗ la «generazione venuta dopo il 1876, la prima dopo quella cui dobbiamo l’unità nazionale» ad avere avuto «il singolare merito di aver iniziato indagini e distinzioni, sempre più accurate e legittime, che oggi conducono a parlare liberamente, non più a mezza voce e senza discernimento, di una questione meridionale» [13]. La generazione dei Sonnino e dei Franchetti, allievi del professor Villari, appartenenti alla classe politica conservatrice della Destra storica, che non più al potere era diventata rivoluzionaria, scandendo i ritmi di una critica feroce alle politiche unitarie che essa stessa aveva inaugurato, accennava all’autonomismo, al decentramento, alle garanzie costituzionali negate e ai metodi violenti di repressione che anche la Sinistra aveva adottato. Infatti Dorso, che spesso ricorda il «Maestro» Fortunato, scriveva che dopo la caduta parlamentare della Destra e «dopo che tutte le formazioni borbonicamente conservatrici si furono gettate nella politica trasformista inaugurata dalla Sinistra, il pensiero della Destra divenne profondamente rivoluzionario» [14].
Nel contesto in cui la borghesia agraria dominante del Mezzogiorno adeguava ogni rapporto politico e istituzionale al fine di conservare i propri privilegi di casta, al di sopra e a scapito di masse inerti e non rappresentate in Parlamento, replicando antiquate logiche feudali, il trasformismo ebbe il sopravvento e divenne prassi culturale prima che politica, mai davvero estinta, riducendo il parlamento a «una massa di votanti, ansiosi del favore ministeriale, necessitati dallo stesso sistema elettoralistico, di cui erano espressione, a chiedere sussidio per i pochi interessi privati che rappresentavano […] cementando, attraverso una sintesi non hegeliana, gli interessi di qualche gruppo del Nord con gli affari di tutti i ladruncoli contabili del Sud» [15].
La critica alle politiche unitarie si veniva specializzando grazie agli studi di Giustino Fortunato e di Antonio De Viti De Marco. Sul primo, Dorso, pur riconoscendo l’amico e il Maestro, scriveva una pesante critica: «Però il suo orizzonte politico non andò oltre la concezione storica dello stato italiano, e, perciò, la profonda reazione spirituale verso le classi trasformiste del suo paese, gli vietò d’intendere le possibilità rivoluzionarie del decentramento amministrativo [16]. Il secondo, che per primo aveva denunciato i danni derivanti al Mezzogiorno dalle politiche doganali del 1887 [17], si era isolato nel tentativo di legare le forze liberiste [18], in quanto l’ennesima mediazione politica trasformista tra il giolittismo e il riformismo socialista aveva consolidato il protezionismo, facendo riprecipitare il sud Italia nella crisi, nonostante le leggi speciali di inizio secolo.
Secondo Dorso, Fortunato e De Viti De Marco avevano fallito perché avevano sperato «salute soltanto nell’azione dello Stato, senza poter ancor intravedere le forze autonome da gettare nel furore della battaglia» [19].
Michele Eugenio Di Carlo
N O T E
[1] G. DORSO, La rivoluzione meridionale, Torino, Piero Gobetti Editore, 1926.
[2] L. STURZO, Svegliati Sud!, a cura di G. Giacovazzo, Bari, Palomar, 2011, p. 105.
[3] F.M. BISCIONE, Dorso, Guido, Dizionario Biografico degli italiani della Treccani, vol. 41, 1992.
[4] Socialista repubblicano. Arrestato nel 1893 per le manifestazioni di piazza a Napoli, processato e condannato nel 1894 a seguito dello scioglimento del Partito Socialista. Condannato nuovamente a seguito dei tumulti del 1898, espatria in Svizzera. Teorico del sindacalismo rivoluzionario, si oppone fermamente all’apertura di Filippo Turati al liberalismo giolittiano. Anticlericale e massone dal 1914, vive da esule in Francia durante il fascismo. Dal 1936 diventa collaboratore della rivista La Verità diretta da Nicolò Bombacci e, pertanto, viene espulso dal PSI.
[5] Ibidem.
[6] G. DORSO, L’occasione storica, Torino, Einaudi Editore, 1949.
[7] G. DORSO, La rivoluzione meridionale, prefazione alla 2ª edizione, Torino, Einaudi Editore, 1972, p. 7.
[8] Ivi, pp. 46-47.
[9] F. S. FESTA, Guido Dorso: Mezzogiorno, classe politica e classe dirigente, in Lezioni sul meridionalismo, a cura di Sabino Cassese, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 217.
[10] G. DORSO, La rivoluzione meridionale, prefazione alla 2ª edizione, cit., p. 109.
[11] Ivi, pp. 111-112.
[12] Ivi, p. 115.
[13] G. FORTUNATO, Che cosa è la questione meridionale?, Rionero in Vulture-Roma, Calice Editori, 1993, p. 36.
[14] G. DORSO, La rivoluzione meridionale, prefazione alla 2ª edizione, cit., p. 118.
[15] Ivi, p. 119.
[16] Ivi, p. 120.
[17] A. DE VITI DE MARCO, Finanza e politica doganale, «Giornale degli economisti», a. II, gennaio 1891.
[18] Nel 1890, De Viti De Marco, insieme agli amici economisti Maffeo Pantaleoni, conosciuto durante gli studi universitari, e Ugo Mazzola, acquisisce la maggioranza azionaria della nota rivista accademica “Giornale degli economisti”, diventandone condirettore. Fonda a Milano, nel marzo del 1904, la Lega antiprotezionista, mettendo insieme socialisti, liberali, repubblicani, radicali nel tentativo di opporsi a un protezionismo che assume sempre più tendenze nazionaliste e imperialiste.
[19] G. DORSO, La rivoluzione meridionale, prefazione alla 2ª edizione, cit., p. 121.
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