La questione meridionale è anche, soprattutto, una questione morale, come tutte quelle che hanno a che fare con la giustizia sociale. Ma è anche una questione politica, che può essere affrontata con efficacia proprio attraverso un proficuo rapporto tra politica e morale. Se essa resta ancora del tutto aperta ed irrisolta, lo si deve probabilmente proprio al mancato incontro tra la l’una e l’altra, come lascia intende Michele Eugenio Di Carlo in questa profonda, decima puntata del suo viaggio nella storia del meridionalismo.
Vi si parla di un personaggio d’eccezione, don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, fervente meridionalista, il cui pensiero resta di grande attualità. Era convinto che la morale dovesse guidare la politica e riteneva pertanto centrale la questione meridionale. Di Carlo cita, in proposito, una riflessione di Giuseppe Giacovazzo, secondo il quale per il sacerdote ed intellettuale siciliano «il Mezzogiorno non era altro che uno degli aspetti più drammatici della scissione tra etica e politica», rilevando come ad essa faccia eco una riflessione di don Tonino Bello: «La situazione di squilibrio del Mezzogiorno nasce sostanzialmente da una fonte di altissimo inquinamento etico: la considerazione del mercato come realtà vincente sull’uomo e sulla solidarietà degli uomini».
Affrontare oggi la questione meridionale significa ripensare il rapporto tra etica e politica. Dovrebbero tenerlo bene a mente quanti oggi propugnano l’autonomia regionale differenziata: un insulto alla morale, alla giustizia, all’unità del Paese. Buona lettura (g.i.)
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Luigi Sturzo nasceva il 26 novembre del 1871 a Caltagirone in una famiglia dalle nobili discendenze. Il padre Felice, barone, aveva amministrato il comune fino al 1870. Il giovane Sturzo frequentava diversi seminari passando da Acireale a Noto per tornare nella sua città natale. Veniva ordinato sacerdote nel 1894, anno in cui si trasferiva a Roma per proseguire gli studi di teologia all’Università Gregoriana. Laureatosi nel 1898 tornava a Caltagirone, dove iniziava un’intensa attività politica che lo vedeva eletto consigliere provinciale e pro-sindaco, ininterrottamente dal 1905 al 1920 [1].
Luigi Sturzo era diventato sacerdote nell’anno stesso in cui il movimento popolare dei Fasci siciliani veniva duramente represso nel sangue a Palermo, quando a presiedere il governo nazionale era l’ex garibaldino Francesco Crispi, che pur appartenente alla Sinistra storica, sosteneva una politica conservatrice finalizzata a mantenere le masse popolari in condizioni di totale dipendenza della borghesia industriale del Nord e del ceto agrario dei latifondisti del Mezzogiorno. Ad attaccare pesantemente il governo Crispi, e a spiegare le vere ragioni delle proteste e delle rivolte del ceto subalterno siciliano, era stato il parlamentare siciliano Napoleone Colajanni in un testo pubblicato nel 1895: Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause [2].
Figura 1. Don Luigi Sturzo
Nell’anno in cui Sturzo si laureava, i moti popolari del carovita a Milano venivano repressi violentemente dal generale Bava Beccaris, il quale ordinava di sparare sulla folla in rivolta. Tra i rivoltosi era presente lo storico socialista lucano Ettore Ciccotti che, riparato in Svizzera, scriveva Mezzogiorno e Settentrione d’Italia [3], testo con cui prendeva definitivamente le distanze dal patriottismo unitario che aveva vincolato la sua adolescenza, non lesinando critiche verso quel meridionalismo filo-monarchico che non era riuscito a incidere contro le politiche doganali protezionistiche e le discriminazioni subite delle masse popolari, totalmente soggette agli interessi della borghesia industriale e del ceto dei grandi possidenti agricoli.
Era questo il clima storico-politico in cui Sturzo maturava le sue profonde e cristiane convinzioni a tutela dei diritti dei ceti subalterni, seguendo con attenzione le tesi dei grandi meridionalisti dell’epoca: da Antonio De Viti De Marco, il salentino che per primo aveva già nel 1891 aspramente criticato le politiche protezioniste quali discriminanti nei riguardi delle forze produttive del Mezzogiorno [4], al pugliese Gaetano Salvemini, assertore convinto della via al federalismo contro il centralismo dei governi liberali, fino a Francesco Saverio Nitti, che con il suo Nord e Sud, pubblicato nel 1900 [5], aveva prodotto una documentazione altamente scientifica sui danni concreti che il Mezzogiorno aveva subito dal processo unitario in termini di capitali circolanti espropriati e di prelievo fiscale. Una posizione, quella di Nitti, che un allarmato Giustino Fortunato cercava di ridimensionare, temendo le già tangibili nostalgie borboniche in una Napoli ridotta da capitale a provincia.
Tornato a Caltagirone nel 1898, Sturzo si attivava immediatamente per creare canali di assistenza e di organizzazione del mondo contadino: leghe, casse rurali, cooperative per affrancare i contadini dalle prepotenze di “gabellotti” e proprietari terrieri.
Sturzo premeva per l’intervento diretto dei cattolici in politica e nello stesso tempo era contrario all’unità politica dei cattolici, consapevole che la sua proposta di popolarismo non si conciliava con le inclinazioni di quel mondo clericale moderato sempre a suo agio nel contesto delle politiche conservatrici dei governi dell’epoca.
Finalmente, il 18 gennaio 1919, in un albergo di Roma, nasceva il Partito Popolare Italiano. La sua natura laica e aconfessionale veniva ribadita da Sturzo in aperta polemica con Agostino Gemelli.
Don Luigi Sturzo ha dedicato la sua azione «al primato della morale sulla politica». Come ha ricordato Giuseppe Giacovazzo, curatore di Svegliati Sud! [6], per l’intellettuale siciliano «il Mezzogiorno non era altro che uno degli aspetti più drammatici della scissione tra etica e politica», tesi ripresa qualche decennio più tardi da don Tonino Bello: «La situazione di squilibrio del Mezzogiorno nasce sostanzialmente da una fonte di altissimo inquinamento etico: la considerazione del mercato come realtà vincente sull’uomo e sulla solidarietà degli uomini» [7].
Nel celebre discorso tenuto a Napoli il 18 gennaio 1923 [8], in occasione del quarto anno della fondazione del partito, l’intellettuale affermava con orgoglio che nel programma del Partito Popolare, sin dalla sua fondazione, era stata inserita «come affermazione fondamentale», per la prima volta in Italia, il tema della «risoluzione nazionale del problema del Mezzogiorno». Altri partiti avevano manifestato la stessa volontà, ma solo sul piano teorico e senza entrare nel merito degli «aspetti tecnici, finanziari, economici, morali». Per il segretario del Partito Popolare, il problema nazionale del Mezzogiorno non si sarebbe risolto senza il formarsi di «una coscienza pubblica della ‘questione’ nella sua portata sintetica e nella sua ragione politica», capace di «irradiarsi e diventare forza motrice di altre energie, locali e statali, economiche e morali di tutta la nazione» [9].
Era di questo programma, che definiva di «risorgimento meridionale», che Sturzo si occupava in maniera dettagliata per ben tre ore nel suo discorso napoletano, prendendo chiaramente le distanze dal pregiudizio diffuso di considerare «il problema meridionale anzitutto come effetto dell’indole, dei costumi, dell’indirizzo culturale, della mancanza di iniziativa e di coraggio» [10].
Da 30 anni sulla questione meridionale si era prodotta una «larga e vasta» letteratura, ma non un’ «impostazione politica» vera e propria, tentata solo da «voci isolate, inascoltate» a cui non aveva fatto seguito «un’azione concorde e forte», poiché non era mai stato superato lo «stato psicologico» di inferiorità di attesa di una risoluzione esterna, mentre – secondo Sturzo – toccava ai meridionali creare «un programma politico della questione meridionale», al di là dei partiti politici disgreganti, facendolo «divenire, con la efficacia delle minoranze concrete, un pensiero generale degli italiani» [11].
In questo programma Sturzo riponeva la propria fiducia, giudicando positivamente l’Unità d’Italia per aver reso la questione meridionale una questione nazionale che, irrisolta, si sarebbe ripercorsa negativamente sull’intera Italia.
Forte e chiara era la richiesta del siciliano per un’autonomia delle regioni che sfuggisse alle tentazioni accentratrici e centralistiche instaurate, trasferendo sic et sempliciter la legislazione piemontese a quella dell’ex Regno delle Due Sicilie. Un’uniformità legislativa che Sturzo riteneva un grave «errore iniziale del regno italiano», a cui tuttavia non si era mai posto rimedio, neanche con le «leggi speciali per la Sardegna, per la Basilicata, per la Calabria, e la legge fondamentale del 1906 per tutto il Mezzogiorno», anche perché mentre la «pressione tributaria e il regime doganale» operavano «con costanza e normalità» le leggi speciali, nella loro applicazione, subivano i limiti del bilancio e condizionanti fattori esterni, tanto che lo squilibrio delle regioni del Mezzogiorno si era aggravato [12].
L’intellettuale di Caltagirone affermava che sulla povertà naturale del Mezzogiorno, persino Giustino Fortunato, «studioso e profondo conoscitore del nostro problema», aveva forzato la mano per «dimostrare che la unità italiana» non aveva «danneggiato il Mezzogiorno»: una preoccupazione che Sturzo riteneva infondata e superata, visto l’indubbio valore da tutti ormai attribuito al processo unitario, ma che rischiava di diventare «un errore di impostazione del nostro problema. Il Mezzogiorno, nonostante le sue povertà naturali, la contrarietà del suo clima e la sua deficiente organizzazione sociale e politica, ebbe periodi di floridezza; e questi coincisero con la politica mediterranea» [13].
E qui Sturzo apriva decisamente la discussione e il confronto su un tema ancora attualissimo, riguardante l’apertura del sistema produttivo del Mezzogiorno agli scambi e alle relazioni commerciali con i paesi del Mediterraneo, quale fattore di sviluppo decisivo, consapevole che il «risorgimento meridionale» non si sarebbe realizzato nel breve, ma sarebbe stato «opera lunga, vasta, di salda cooperazione nazionale», nel quale dovevano convergere necessariamente una pluralità di componenti: «le forze autonome, quelle nazionali e quelle statali; cioè quelle morali, quelle economiche e quelle politiche» [14]. Nell’intesa che la parola d’ordine dei popolari era, e restava, «il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno», fidando in una classe dirigente meridionale che avrebbe saputo conquistarsi meritatamente «il dovuto posto nella vita italiana» [15].
Una fiducia che oggi sappiamo mal riposta.
Michele Eugenio Di Carlo
(Società di Storia Patria per la Puglia)
N O T E
[1] Notizie tratte da L. STURZO, Opere scelte, a cura di Gabriele De Rosa, Roma-Bari, Edizioni Laterza, 1988.
[2] N. COLAJANNI, Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause, Palermo, R. Sandron, 1895.
[3] E. CICCOTTI, Mezzogiorno e Settentrione d’Italia, Milano-Roma-Palermo, R. Sandron presso la rivista popolare, 1898.
[4] A. DE VITI DE MARCO, Finanza e politica doganale, «Giornale degli economisti», a. II, gennaio 1899.
[5] F. S. NITTI, Nord e Sud, Torino, Roux e Viarengo, 1900.
[6] L. STURZO, Svegliati Sud!, a cura di Giuseppe Giacovazzo, Bari, Palomar, 2011, pp. 41-103.
[7] Ivi, pp. 5-6.
[8] L. STURZO, Il Mezzogiorno e la politica italiana, discorso tenuto a Napoli nella Galleria Principi il 18 gennaio 1923; ora in L. STURZO, Svegliati Sud!, cit., pp. 41-103.
[9] Ivi, pp. 41-42.
[10] Ivi, p. 44.
[11] Ivi, p. 47.
[12] Ivi, pp. 76-77.
[13] Ivi, pp. 65-67.
[14] Ivi, p. 70.
[15] Ivi, p. 102.
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