La brasciola di cavallo, “must” della cucina foggiana

Il consumo alimentare della carne di cavallo è un’usanza che accomuna molti comuni pugliesi, e in particolare Foggia, Cerignola ed altri centri del Tavoliere, pianura in cui una volta abbondavano i “cavallari” e gli equini erano un prezioso supporto al duro lavoro dei campi.

C’è chi sostiene che di questa affezione per i cavalli vi sia traccia perfino nel nome della città romana che fu in qualche modo progenitrice di Foggia: Arpi, toponimo che secondo alcuni derivava da Argos Hippium, ovvero Argos, come la città greca di cui era re Diomede, ed “hippium“, dei cavalli, a sottolineare come fosse un luogo particolarmente vocato per l’allevamento equino.

Basta questo a capire perché mangiare carne di cavallo da queste parti è abitudine radicata, del tutto scevra dai pregiudizi o addirittura dagli espressi divieti che in altre parti d’Italia e del Mondo l’accompagnano.

Il cavallo aveva una duplice utilità: da giovane aiutava nel lavoro dei campi, quando gli anni passavano o si azzoppava, veniva macellato, per essere servito a tavola. Gli allevamenti equini a scopo alimentare sarebbero arrivati decenni dopo, a quei tempi – parliamo della prima metà del secolo scorso ed anche prima – s’usava così.

Certo, era un singolare destino, quello del cavallo: aiutare l’uomo, e poi sfamarlo. Per giunta, costava poco, molto meno del vitello, e perciò la sua carne veniva servita nella cantine, nelle taverne, nelle bettole.

Ma come? E qua veniamo al punto. Perfetta dal punto di vista nutrizionale, la carne di cavallo presenta qualche criticità sul versante organolettico. Il sapore vagamente dolciastro non s’accorda con tutti i palati. E allora? Bisogna insaporirla.

E qui casca l’asino, anzi il cavallo.

Le brasciole (sì, con la “s”, e non braciole, che sono tutt’altra cosa) piccanti di carne di cavallo sono oggi un must della gastronomia foggiana, ma non è stato sempre così. Nacquero come dichiarata alternativa ad un altro tipo di preparazione che fece la fortuna di una cantina, ubicata in via Schiraldi: le brasciole di cavallo alla pizzaiola. L’usanza di cucinare la carne equina alla pizzaiola, non è solo foggiana. Mi risulta si faccia così anche a Cerignola, dove però si preferisce utilizzare questo tipo di preparazione per la carne equina a pezzi o a fettine, e non per gli involtini.

Soltanto a qualche decina di metri dalla cantina di via Schiraldi, in via Carità, qualche anno dopo sarebbe nata la Grotta Azzurra di Vittorio, una trattoria-pizzeria che, fino a quando è rimasta aperta, ha rappresentato un autentico tempio dei cultori foggiani delle brasciole. Perdonate l’inciso, ma non si può non ricordare che Vittorio, o più precisamente sua moglie, faceva anche la miglior focaccia e la miglior pizza al piatto della città, come pure va ricordato che là vicino, in via Schiraldi, sorgeva anche il celebre forno del “cecato”, con la sua pizza al pomodoro alta e soffice, il cui ricordo basta da solo a dar ragione a Proust ed alla sua tesi che il potere del cibo sta nella memoria, nella emozione che riesce ad evocare.

Ma torniamo al racconto della brasciole. Dunque, in via Schiraldi si vendevano quelle alla pizzaiola. Per differenziare l’offerta da quella dell’esercizio rivale, in via Carità si pensò bene di proporre agli avventori una versione decisamente più piccante.

A raccontarmi l’insolita e intrigante storia delle brasciole è stato un mio fraterno amico, scrigno vivente di memoria di fatti e luoghi foggiani, maestro di vita, che preferisce non essere citato, e va bene così. Ma lo ringrazio affettuosamente per avermi regalato questa storia di sapori di altri tempi e di avermi fornito la ricetta delle brasciole alla pizzaiola, così come venivano preparate nella cantina di via Schiraldi e come lui stesso oggi si diletta a cucinare.

Il primo passo, ovviamente, è comprare la carne. Una volta si poteva farlo solo in macellerie adibite a questo tipo di vendita, in quanto la carne equina veniva ritenuta di seconda scelta rispetto alle altre. Oggi la vendita è stata liberalizzata, ma a Foggia, così come a Cerignola, sopravvivono macellerie specializzate nella sola carne equina, e conviene andare in una di queste, chiedendo al macellaio fettine idonee per le brasciole: devono essere sottili e tenere, quanto basta ad arrotolarle con facilità.

A casa cominciamo la preparazione stendendo le fettine sul piano di lavoro (almeno una a commensale), e posizionando al centro il condimento: aglio tritato (più o meno un quarto di spicchio per fettina), prezzemolo, formaggio pecorino grattugiato. La ricetta originale si fermava qui: oggi c’è chi vi aggiunge uvetta passa e pinoli. Se si vuole insaporirle ulteriormente si può utilizzare un po’ di pepe, ma soltanto un po’, se no altererebbe il gusto della “pizzaiola“.

Adesso viene il bello, perché bisogna arrotolare le fettine così farcite, dal lato lungo. Per chiuderle facilmente si possono utilizzare degli stuzzicadenti, ma una volta le nostre nonne usavano fili di cotone, tagliati dall’immancabile rocchetto che si teneva sempre in casa per rammendi o per riattaccare i bottoni.

Era un esercizio di bravura, cui faceva da pendant l’abilità dei commensali a “sciogliere” gli involtini, una volta portati in tavola.

Forse anche per questo una volta, a tavola, si usava “indossare” il tovagliolo, infilandone un angolo nel colletto: serviva ad evitare di sporcarsi con gli schizzi di sugo che spesso partivano quando si doveva srotolare la brasciola.

Adesso passiamo al sugo. Mettere in un tegame l’olio di oliva e un paio di spicchi d’aglio schiacciati, facendoli rosolare per un paio di minuti, quindi salsa di pomodoro passata, di peso equivalente a quello della carne.

Quando il sugo si è addensato, insaporire con sale. È il momento di mettere a cuocere gli involtini (qualcuno usa prima rosolarli un po’, nello stesso tegame, prima dell’aggiunta della passata).

Il tempo di cottura dipende dalla consistenza della carne. È importante però farlo a fuoco basso, per amalgamare meglio tutti i sapori. Quasi a fine cottura cospargere il tutto di origano. E portare in tavola: inutile dire che con il sugo si può condire la pasta oppure può essere utilizzato per la intramontabile scarpetta.

La versione “piccante” differisce soprattutto per quanto riguarda il sugo, in cui spadroneggia il peperoncino, che deve accompagnare la salsa e che può essere eventualmente adoperato anche nella farcitura degli involtini. Si comincia mettendo a soffriggere in olio di oliva aglio e cipolla, si aggiungono le brasciole fino a quando non prendono colore. Quindi la passata di pomodoro, eventualmente accompagnata da una noce di conserva, sempre di pomodoro.

Alcuni usano soltanto la cipolla, ma vi assicuro che l’abbinata aglio cipolla funziona, conferendo al sugo un gusto ed un equilibrio molto particolari.

La questione fu al centro di un’appassionata discussione notturna in quel di Siponto, che si concluse con una telefonata ad un noto chef foggiano che confermò: aglio e cipolla insieme vanno bene.

La quantità di peperoncino dipende naturalmente dal gusto più o meno piccante che si intende conferire alla pietanza.

La conclusione è che, alla pizzaiola o piccanti, le brasciole ti restano scolpite nel cuore, nel palato e nella memoria.

Geppe Inserra

[La foto che illustra il post mostra una brasciola servita ormai molti anni fa nella Grotta Azzurra di via Carità]

 

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Author: Geppe Inserra

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