19 agosto 1943: la tragedia di Foggia raccontata da Giuseppe de Troia

 

Insigne cultore di storia, soprattutto medievale (è stato tra i massimi esperti della Capitanata fridericiana), il compianto Giuseppe de Troia offrì qualche anno fa, agli amici e ai lettori di Lettere Meridiane una preziosa testimonianza personale sulla incursione aerea che colpì Foggia e i foggiani il 19 agosto 1943, la più violenta e la più disastrosa di quella tragica estate.

Lo conobbi personalmente in quella occasione, grazie ai buoi uffici di mio cugino Pasquale Episcopo, suo amico e discepolo. Pasquale mi portò a casa sua, facendomi conoscere una persona straordinaria, la cui scomparsa ha privato Foggia e la Puglia di uno studio di enorme spessore.

Oltre che affidarmi il documento che state per leggere, de Troia mi commosse, parlandomi di mio padre Carlo, e delle cure che questi gli aveva prestato quando, da giovane, si era ferito casualmente alla fronte, andando a sbattere contro una persiana di Palazzo Dogana, mentre camminava in piazza XX settembre. Si conoscevano e si stimavano, perché così come de Troia, anche mio padre frequentava la parrocchia di San Michele e si riparava, durante le incursioni aeree degli Alleati nel rifugio delle Marcelline, in corso Garibaldi.

Il racconto di de Troia è importante ai fini di una maggiore conoscenza di quegli eventi perché l’autore, ancora ragazzo, fu testimone oculare dei fatti e delle distruzioni e perché nella sua narrazione riesce a mantenere il rigore e la neutralità dello storico.

Il documento svela alcuni particolari poco noti di quelle drammatiche giornate confermando la tesi di cui abbiamo parlato ieri (potete leggere qui la relativa lettera meridiana): diversamente da quanto viene in generale ritenuto, in quella fatidica giornata del 19 agosto 1943, Foggia era tutt’altro che deserta. Fu proprio quel feroce raid a costringere i foggiani alla fuga. Interessanti sono anche il racconto della chiusura del rifugio antiaereo delle Marcelline, e del saccheggio operato dai nazisti che mise ancora di più in ginocchio una città già prostrata. (g.i.)

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19 AGOSTO 1943:
IL BOMBARDAMENTO AEREO SU FOGGIA
Cronaca delle ore di terrore in rifugio antiaereo

Sul bombardamento che subì Foggia 70 anni fa, il 19 agosto 1973 hanno già scritto L. Cicolella (1973), O. Tempesta (1995), A. Guerrieri (1996), ecc. ma pur con tanti particolari non si è descritto lo stato d’angoscia, l’incubo e il terrore di chi nei rifugi antiaerei, sotto l’uragano delle bombe si aspettava la morte da un momento all’altro, o peggio di rimanere sepolto vivo, magari dilaniato dalle esplosioni e forse senza speranza di soccorso.

Erano circa le ore 11.45 quando l’urlo delle sirene risuonò sinistramente nell’aria. presagio di terrore e di morte. Le sirene di allarme ripetevano il loro caratteristico suono per tre volte consecutive, intervallate da una breve sosta di pochi secondi. Quella del nostro quartiere era installata sull’Istituto delle Suore Marcelline in corso Garibaldi, quasi dirimpetto alla casa della mia famiglia.

Non era ancora terminata la terna di allarme ed ecco apparire la mamma che veniva su a casa per poter andare insieme ai rifugio antiaereo predisposto nei seminterrati delle Marcelline. In casa eravamo io, due sorelle ed un fratello. La mamma si affrettò a togliere i panni stesi ad asciugare fuori dal balcone fin dal mattino. Vi era una prescrizione che vietava di tenere esposto qualsiasi panno su balconi, terrazze e finestre durante l’allarme, come pure tenere accese notte tempo luci visibili dall’esterno in tale evenienza.
E mentre le sirene davano ancora l’ultimo avviso, una prima scarica di bombe sulla città fece tremare tutta la casa, con polvere e piccoli calcinacci dalle pareti. II terrore allora s’impossessò di noi che scendemmo di corsa le scale per correre verso il rifugio, mentre lo spavento frenava le gambe della mamma che non riusciva a correre: “andate avanti voi, correte, vi raggiungerò”, esclamava con angoscia. Ma nessuno di noi osò lasciarla: la sorella grande la prese con forza sotto braccio e l’aiutò a camminare più veloce.

Raggiungemmo il rifugio distante una trentina di metri, mentre le bombe cadevano, fra il sibilo degli aerei in picchiata, il fragore delle esplosioni, il sussulto e la polvere degli edifici. Il rifugio, costituito da alcuni locali interrati sotto l’edificio di due piani dell’Istituto delle Marcelline, aveva il soffitto rinforzato da una fitta intravatura di legno a guisa di pilastrini per l’evenienza di crolli superiori a seguito di bombardamento. Quando entrammo vi era già molta gente e le suore che ci accoglievano facevano da guida lungo le scale.

Dopo alcuni minuti in cui si udiva il rombo cupo delle formazioni da bombardamento ed il crepitio dell’artiglieria contraerea, si sentì il sibilo degli aerei in picchiata e dei caccia, seguito dalla fragorosa caduta delle bombe che provocavano sommovimenti sussultori di tutto l’edificio, mentre nubi di polvere scendevano dalle scale e dai lucernari Eravamo in preda al terrore di rimanere sepolti vivi sotto le macerie, mentre l’angoscia per il babbo che non era con noi, aumentava quell’incubo di morte. Dopo pochi minuti un altra scarica di bombe fece di nuovo sussultare l’edificio, mentre le urla di disperazione e di terrore dei rifugiati accrescevano la drammaticità di quella scena.

Molti uomini in piedi lungo le pareti, tesi e pallidi in volto. La maggior parte dei rifugiati erano ginocchioni per terra davanti ad un’immagine della Madonna dei Sette Veli, patrona di Foggia, mentre una suora in ginocchio implorava recitando continuamente preghiere. Poi la preghiera divenne offerta di sofferenze, non solo dell’animo ma pure del corpo, perché la suora in ginocchio per terra, nel momento più drammatico, curva fino a terra, pose le mani sotto le ginocchia a schiacciare le dita. Era la preghiera e l’offerta che scaturiva dalla disperazione di momenti estremi per il pericolo di morte imminente. D’improvviso la luce mancò: era stata colpita la cabina elettrica. Piombammo nel buio, rischiarato solo da code di luce che scendeva da piccoli cunicoli in comunicazione con i lucernari che affacciavano su corso Garibaldi e dai quali entrava polvere ad ogni caduta di bombe. Di tanto in tanto affluivano persone che non avevano potuto rifugiarsi dall’inizio. Noi puntavamo continuamente lo sguardo su di loro per vedere se scendesse anche il babbo; ma nulla.

 

L’incursione aerea si succedeva a ondate successive intercalate da brevi interruzioni. Durante una delle ondate la forza delle esplosioni, dei boati e dello scuotimento dell’edificio fu di tale intensità che avemmo la certezza che l’edificio sotto cui eravamo fosse stato colpito e noi fossimo rimasti sepolti sotto le macerie. L’incubo ed il terrore erano al massimo: quello che spaventava maggiormente era la paura di rimanere vivi sotto cumuli di macerie, forse senza speranza di aiuto ed essere salvati in quel caos di distruzione e di inefficienza del pubblico soccorso. La sorellina piccola per non udire i boati delle bombe e le urla dei rifugiati, infilati i mignoli nelle orecchie premeva con tanta forza da ferirsi. Cessata l’ondata, volli risalire le scale per vedere se veramente eravamo sepolti; ma le scale imbrattate di polvere e calcinacci erano libere fino all’uscita su corso Garibaldi ove mi affacciai per vedere se arrivasse il babbo. Del babbo ancora nulla all’orizzonte. Solo dopo altre ondate di bombe, verso le 13,30, in uno degli ultimi intervalli, si vide di lontano, all’altezza del tabacchino di “donna Peppinella”, vicino alla Banca d’Italia (l’autore si riferisce alla vecchia sede dell’Istituto, che attualmente ospita l’Accademia di Belle Arti, n.d.r.), venire un po’ correndo ed un po’ a passi svelti il babbo che avanzava tra le pietre di cui era ingombra l’intera strada. Quale gioia provocò la vista e l’arrivo del babbo che ci abbracciò:  tutti salvi dopo tanta catastrofe aveva impiegato oltre due ore per giungere, fra un’incursione e l’altra, da via La Rocca (traversa di Corso Cairoli) fino a noi ! Ancora qualche altra ondata di bombe (la settima) e verso le 15 uscimmo dal rifugio per andare a casa.

Ai nostri occhi si presentò il corso Garibaldi, fino a tre ore prima ridente di vita con due filari di palme e oleandri, tutto ostruito da enormi cumuli di macerie di case diroccate. L’edificio dirimpetto alle Marcelline, a 20 metri di distanza era scomparso in un grande cumulo diroccato, così un’ala delle Marcelline; analogamente s’intravvedevano ammassi di macerie a macchia di leopardo.

Trovammo la casa tutta piena di calcinacci e vetri rotti, mentre tutte le imposte di balconi e le finestre erano state violentemente spalancate dagli spostamenti d’aria prodotti dalle esplosioni. Mi affacciai sul balcone della mia stanza su via Zodiaco e vidi che le case di fronte, a dieci metri, non esistevano più vi erano persone che piangevano disperatamente i famigliari sepolti, cercando di rimuovere manualmente tufi e materiali.

Su corso Garibaldi si vedevano passare carrettini a mano, con sopra morti e feriti, diretti all’ospedale in via Arpi. A casa, dai rubinetti non usciva più acqua, mentre la sete faceva sentire il pungolo irresistibile. Non vi erano bottiglie di riserva perché tale precauzione non si era ancora resa necessaria in quanto nessun evento l’aveva in precedenza provocata. Come soddisfare la sete? Vi era una tazza ove la mattina avevo fatto colazione con latte e caffè, dopo di che era stata lasciata con un po’ d’acqua per essere poi risciacquata; nel frattempo in quella tazza erano caduti polvere e calcinacci, dovetti bere quel poco d’acqua di color marroncino con infuso di polvere e calcinacci. Nel pomeriggio, verso le 17,30, il babbo volle andare in via Zuppetta per vedere cosa era successo della nostra casa di proprietà data in fitto. Tornò piangendo, dicendo che ormai non possedevamo più nulla perché ridotta ad un cumulo di pietre.

Le strade intanto si animavano di persone che con carichi di masserizie si allontanavano rapidamente dalla città. Questa processione di profughi si protrasse fino a tarda sera. Giunse la notte e la città restò buia, piena ai macerie e quasi del tutto spopolata. Pochissimi erano ancora in città. Verso le 23 andammo a letto a lume di candela. Dormivamo semivestiti ed angosciati da due ore, quando un’illuminazione improvvisa del cielo ed il rumore di pesanti scarponi di un gruppetto di soldati in fuga verso la campagna ci fecero intendere che una nuova incursione aerea era sopra di noi, anche se, per mancanza di elettricità e per il dissesto generale, le sirene non davano più l’allarme. La luce proveniva infatti dai razzi illuminanti che i bombardieri avevano lasciato cadere, prima di sganciare sulla città in rovina i loro carichi di bombe. La fuga dei soldati verso la campagna era in quel caso il miglior rifugio che a noi non era stato insegnato. Dopo qualche minuto infatti si udì il sibilo degli aerei in picchiata ed il nuovo martellare delle bombe sulla città Piombati dal letto e vestiti alla men peggio, non potemmo accedere al ricovero delle Marcelline perché queste erano già andate via nel pomeriggio, profughe, ed avevano chiuso l’edificio.

In tale altro sconforto, non ci rimase che scendere in un locale del pal. Trifiletti di fronte a casa (è il palazzo attualmente pericolante e transennato, posto tra le Marcelline e l’ex cinema Garibaldi. n.d.r.). Era un sotterraneo più profondo, non allestito a ricovero, buio, dalle pareti senza intonaco o senza pavimentazione. Eravamo un gruppetto sparuto di 6-7 persone al lume di una candela, in un ambiente tetro e abbandonato ove avremmo fatto meglio a non scendere per ogni evenienza, e per giunta senza alcuna speranza di soccorso. L’incubo durò circa 40 minuti con altre tre ondate di bombardamenti Poi, dopo un’altra mezz’ora uscimmo spontaneamente perché, come anzidetto, non vi erano più le sirene ad annunciare il cessato allarme con suono continuo. Tutto ormai era in rovina.

Quel bombardamento notturno, la grande desolazione della città tutta in rovina ed ormai totalmente vuota ai abitanti, l’assoluta impossibilità di poter riprendere l’attività lavorativa, fece decidere i miei genitori a partire l’indomani mattina: meglio salvare la vita e vivere meno angosciati. In 3-4 ore complessive di quel giorno, Foggia perdette circa 10.000 cittadini.

La mattina dopo, su un carro a quattro ruote tirato da un solo cavallo, carico di persone, partimmo verso le 9 alla volta di Lucera. Recammo con noi pochissimi indumenti personali, i gioielli e qualche altra cosa necessaria, nella convinzione di dover rientrare quanto prima. Quando iniziò la strada in salita, il cavallo, tutto grondante di sudore, non riusciva a farcela. Fu d’uopo che gli uomini e i ragazzi scendessero per seguire a piedi. Si arrivò a Lucera verso le 12.30. Quell’esodo durò più di un mese, durante il quale la città di Foggia rimase completamente disabitata, in balia di ladri e malviventi.
Da Lucera sentimmo gli altri bombardamenti su Foggia: del 25 e 31 agosto e l’ultimo del 6 settembre. Complessivamente circa 20.000 morti.

Nel settembre, avendo l’Italia firmato l’armistizio, i tedeschi in ritirata posero una mitragliatrice con una pattuglia di armati su ciascuna delle strade di accesso a Foggia, vietando a chiunque l’ingresso in città. Ricordo questo evento perché da Lucera, mio padre ed io dovevamo raggiungere Foggia con un calesse. Usciti da Lucera, dopo circa 100 metri trovammo sulla statale per Foggia la pattuglia dei tedeschi con la mitragliatrice piazzata al centro della strada che ci vietò il passaggio. Vi fu qualcuno che pensò di ovviare passando per stradine laterali, ma scoperto da: binocoli dei tedeschi gli si puntarono contro i fucili e sarebbe stato fulminato se le grida di coloro che da lontano videro la scena non lo avessero fatto ripiegare indietro. Questo divieto di accesso a Foggia da parte dei tedeschi durò poco meno di una settimana. I loro camerati stavano saccheggiando la città: con i camions e i cavi d’acciaio sventravano le porte dei negozi, magazzini depositi, uffici, ecc. caricando e portando via sugli autocarri quanto ritenevano di loro utilità. Anche il nostro esercizio ebbe le porte sventrate. Era il tipico saccheggio bellico che si operava allorché i militari occupavano terre nemiche.
Giuseppe de Troia

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Author: Geppe Inserra

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