L’orrore del 22 luglio 1943 a Foggia nel racconto del grande scrittore Bianciardi

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L’ottantesimo anniversario dei bombardamenti che insanguinarono Foggia sta passando quasi del tutto in sordina. Non fu così dieci anni fa, in occasione del settantesimo anniversario, che vide la città mobilitarsi, con università, fondazioni, istituzioni e associazioni che costruirono una rete. Che si stia rarefacendo la memoria di quella tragica estate, che ha lasciato una traccia indelebile sul futuro della Città? Difficile da dire.

Lettere Meridiane celebra la ricorrenza riproponendo la narrazione più importante e più drammatica dei raid del 22 luglio 1943, che provocarono tantissime vittime e causarono la distruzione di gran parte dell’abitato. Quella drammatica giornata ebbe un testimone d’eccezione: il grande scrittore toscano Luciano Bianciardi. Poco più che ventenne, l’autore de La vita agra, romanzo immortalato sul grande schermo da una straordinaria interpretazione di Ugo Tognazzi, era un soldato di leva, e quel fatidico giorno il suo reparto era di stanza a Foggia, nella caserma Miale.
Mentre cadevano le bombe, Bianciardi pensò bene di scrivere una lettera a sua sorella, Mariagrazia. Un gesto tipicamente letterario, con cui forse l’autore pensava di esorcizzare il terrore. Poi, quando l’infernale raid aereo ebbe termine, Bianciardi e i suoi commilitoni si precipitarono all’esterno della Caserma, per prestare soccorso alla popolazione. Il suo racconto in presa diretta è un irripetibile reportage di quella drammatica giornata.
Borges sosteneva che la sola realtà possibile è la letteratura. Il racconto di Bianciardi, intitolato L’ultima lettera che scrissi a Mariagrazia, ne è una straordinaria testimonianza.
L’ultima lettera che scrissi a Mariagrazia fu il ventidue luglio 1943, la mattina verso le dieci a Foggia. Lo ricordo molto bene, perché mentre scrivevo la lettera, gli americani bombardavano la città.
Quello è stato un gesto retorico e letterario, anzi, come diceva Mucciarelli, marcio di letteratura, ed io me ne son pentito. In quel tempo leggevo Ungaretti e c’era una poesia che m’era rimasta in testa: «Un’intera nottata buttato vicino al compagno massacrato, con la sua bocca digrignata volta al plenilunio, e la solitudine delle sue mani penetrata nel mio silenzio, ho scritto lettere piene d’amore. Non sono stato mai tanto attaccato alla vita». Non ricordo più come fossero rimasti i versi, e nemmeno potrei dire se sono esattamente così, ma allora mi fecero una grande impressione; per questo, appena cominciarono a cadere le prime bombe presi la carta e scrissi quella lettera. L’ho riletta più tardi, e mi fece quasi schifo per quanto era bolsa. Allora invece mi pareva di aver fatto chissà cosa: ma durò poco, fino al rancio, perché dopo il rancio ci venne l’ordine di spostare un plotone in città, e per l’appunto toccò al mio, che era il quinto plotone.

Qui il racconto cambia marcia. Fino a questo momento, l’esperienza delle bombe che cadono dal cielo, della “morte possibile” è stata letteraria. Anzi, forse, più precisamente si può dire che la letteratura è stata un antidoto alla paura di morire: come Ungaretti, Bianciardi ha cercato di esorcizzare la possibile morte imminente affastellando parole. Adesso c’è però la realtà che lo aspetta, fuori la caserma. Il passo successivo è di un realismo spietato. L’immagine alla quale lo scrittore si affida è il silenzio, provocato anche dal fatto che pur essendo trascorse quattro ore dalla fine del raid aereo, il terrore era tanto che nessuno era ancora uscito dai rifugi. I soldati del plotone sono, insomma, tra i primi a rendersi conto di quanto era accaduto.

Erano trascorse almeno quattro ore dal bombardamento, ma la gente non era ancora uscita dai rifugi e dalle case, le strade erano vuote e silenziose, e sul lastricato risuonavano i nostri passi. Verso la stazione invece c’era altra musica, perché certi vagoni carichi di carburante e di munizioni avevano preso fuoco e saltavano per aria, sì che a tratti volavano in giro frammenti di ghisa grossi come pipistrelli, e crepitavano fitte le cartucce, come se un branco di mitragliatrici impazzite sparasse in tutte le direzioni.

Dopo aver implicitamente ammesso l’inadeguatezza o se preferite l’impotenza della letteratura, Bianciardi si affida adesso al confronto con un’altra espressione d’arte, il cinema. La descrizione della Foggia bombardata è di una nitidezza che commuove.

Non ho mai visto, nemmeno al cinema, una città bombardata così vera come era vera Foggia quel giorno; ed in effetti non credo che sia possibile riprodurre artificialmente un simile scenario: gli alberi erano tutti mozzati alla stessa altezza, ed anche i lampioni ed i pali dell’elettricità, tagliati netti ad un metro da terra e poi le case sventrate, le macerie sparse per terra, dappertutto, in un disordine così completo che poteva sembrare fatto apposta.

La descrizione dello scrittore di Grosseto prosegue proprio a mo’ di narrazione cinematografica: è come se la macchina da presa zoomasse all’indietro per far vedere adesso, in un atroce campo lungo, lo spettacolo della morte.

E poi, in mezzo a tutto i morti. Dal mio plotone infatti prelevarono una squadra di dieci uomini, scelti a caso: non scelsero me, ma chiesi di andare in soprannumero, per stare insieme a Mucciarelli, che era dei dieci.
Oltre a noi salì sul camion un maggiore di artiglieria ed un prete, un pretino timido ed inutile, che infatti non fece nulla. E che poteva fare? Gli prese la paura, e poi la sete (era il 22 luglio, a Foggia) e mi finì l’acqua della borraccia. Ogni tanto si provava a benedire qualcosa, ma poi smise, perché non c’era niente da benedire. Il primo che vidi doveva essere un ragazzo, sedici-diciassette anni: probabilmente fu ucciso mentre fuggiva su di un carretto perché sopra di lui, sventrato, c’era un cavallo. Mucciarelli lo prese per le braccia, ma non riuscì a sfilarlo di là sotto; lo lasciò andare, ma intanto la pelle cotta del cadavere gli rimase attaccata al palmo delle mani. I morti per bombardamento non hanno nemmeno il colore dei morti veri: diventano gialli e rossicci, proprio il colore della porchetta. Quando sono interi, sono così, ma lì di persone intere ce n’erano poche: spesso anzi restava solo un grosso gomitolo di stracci, carne, sangue e capelli.

Il ritmo della descrizione di Bianciardi prosegue incalzante, fino all’orrore supremo. Il racconto – va detto – ha un valore letterario altissimo: ricordare alcune cronache di guerra di quello che è stato per me il più grande scrittore di ogni epoca, Ernest Hemingway. La morte di persone inermi ed innocenti è una violazione delle regole più elementare dell’umanità, ma è un delitto quando uccide persone che si sono appena affacciate alla vita, come i bambini. Una tale morte, dice Bianciardi, è “uno scempio osceno del corpo e dell’anima dell’uomo.”

Avevamo scardinato la persiana di una finestra, e su quella cercavamo di spingere i cadaveri, con una pala, per poi adoperare la persiana a mo’ di barella. Io, appunto, ero quello della pala: quando vidi gli intestini impastati con l’asfalto che non si spiccicavano, allora mi sentii male e soprattutto ebbi un moto di disprezzo verso me stesso, per quella retorica lettera della mattina, per aver creduto che la morte fosse una cosa da scriverci sopra le poesie. «La solitudine delle sue mani penetrata nel mio silenzio». Trovammo un corpo di vecchio, con sopra una mano di bambino, recisa al polso. Di chi era quella mano??
Più avanti, sul marciapiede, c’erano tre bambini di quattro, sette, dieci anni, distesi l’uno accanto all’altro. Sollevando la coperta che avevano addosso si vide che l’esplosione li aveva falciati al ventre. Ed accanto a loro c’era un uomo che piangeva. Gli altri presero i bambini, uno per uno, per le gambe e per le braccia, e cominciarono a buttarli sul cassone, dove già il mucchio cresceva. Ed il povero padre venne a piangere da me, a raccomandarsi che non gli prendessimo i suoi bambini, o che almeno portassimo via anche lui. Io che dovevo fare?
Raccogliemmo in tutto diciassette cadaveri, e li portammo al cimitero, su di un mucchio già grande che altre squadre avevano formato. Erano centinaia di morti, un mucchio di carne umana macellata e cotta. Il più anziano fra noi, il caporale Bottai, che era un avvocato di Pisa, ordinò «Attenti» e qualcuno si fece il segno della croce. Io no: perché quella non era morte consacrata, era uno scempio osceno del corpo e dell’anima dell’uomo. Accesi una sigaretta e mi sedei sopra una tomba.

Vale la pena osservare che la descrizione di Bianciardi offre anche una chiave per capire perché non si è potuto mai procedere ad una conta precisa delle vittime: chi avrebbe mai potuto contare i morti, in una situazione così drammatica? L’orrore finisce soltanto molte ore più tardi, quando Bianciardi e i suoi compagni tornano in caserma, mettendosi a bere per attenuare la disperazione che li aveva presi. Ma l’orrore non finisce mai: la tragedia di Foggia assurge a tragedia dell’umanità. Qualcosa che non potrà mai più essere dimenticata.

A sera si fece una colletta per comprarci un fiasco d ‘alcool noi undici dei morti: ce ne passammo un po’ sulle mani e sulla faccia, poi si andò a dormire. Li ricordo uno per uno, quei miei compagni del 22 luglio a Foggia: Raul Varreschi, per esempio, ora fa il rappresentante di una casa di cosmetici, e gira sopra un’automobile fatta a forma di tubetto di dentifricio col tappo al posto del fanale. Potrebbe sembrare un ragazzo allegro, e forse lo è. Ma nemmeno lui si è dimenticato dei morti di Foggia. E lui, come me e come gli altri, non vogliamo che ci siano più le guerre, perché la morte non deve più venire così sozza e schifosa come quel giorno di Foggia.

Ecco perché non si dovrebbero dimenticare mai storie come questa. Soprattutto a Foggia.

Geppe Inserra

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Author: Geppe Inserra

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