“Boccioli in fiore tra le falde garganiche” è il titolo del primo capitolo de I segreti di Puglia di Kazimiera Alberti dedicato alla provincia di Foggia, ma anche il primo del libro che si occupi di una città in particolare. In questo caso è Manfredonia. L’autrice descrive, con la sua prosa venata di poesia, le emozioni che prova in una splendida giornata di febbraio che è già un presagio di primavera, nella cittadina sveva, tra il suo mare e le sue luci.
Da qui, Kazimiera comincia il suo viaggio che la porterà a Monte Sant’Angelo, di cui parlerà diffusamente nei capitoli successivi, stupendosi davanti al fiorire degli alberi.
Da oggi avviamo anche la pubblicazione dell’e-book in progress, che si arricchirà ad ogni puntata, in modo da restare sempre aggiornato e di dare la possibilità, ad amici e lettori, di leggere e scaricare anche quelle precedenti, che avessero eventualmente perse. Ieri avevamo pubblicato il capitolo dedicato alla visita alla Cattedrale di Foggia ed alla madonna dei Sette Veli.
Di seguito trovate il capitolo manfredoniano, alla fine del testo il link per poter scaricare l’e-book. Buona lettura
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BOCCIOLI IN FIORE TRA LE FALDE GARGANICHE
(ad ANNA GRECO)
Non aver molta fiducia nel calendario. Anche esso tradisce, falsifica, inganna. Ritarda, avanza, senza motivo.
Oggi, per esempio, ti comanda di credere che è il « 12 febbraio ». Ma guarda invece il cielo, il mare, l’intero Golfo di Manfredonia tagliato in forma di falce ideale. Guarda la montagna garganica! La giornata primaverile ha cancellato l’iscrizione « 12 febbraio » e si fa beffe del calendario. Ha immerso tutto nel turchese.
Quando arriviamo a Manfredonia è ancora notte, e la luna «è coperta del cappuccio della volpe», come poeticamente dice il popolo polacco. Ma la straordinaria chiarezza del cielo ci confida subito fin dall’inizio che le stelle han prenotato per noi uno di quei giorni che con impazienza sorpassano la primavera. Quando alla fine sulle rive del golfo salutiamo il sole, che come enorme ragno comincia a tessere la sua ragnatela dorata, comprendiamo che il vento, sovrano signore di Puglia, qui ammutolisce vergognoso trovando a nord la forte opposizione del massiccio garganico.
Tante volte da lontano abbiamo guardato questo Gargano. Da Canne pareva imitare un altorilievo blu oscuro scolpito sulla parete del cielo. Quando l’osservammo da Castel del Monte sembrava essere una cortina grigio-azzurra che gelosamente racchiudesse l’orizzonte. Ma da Lucera esso aveva già forma più reale. Era un semicerchio di zaffiro, era la forte vedetta alla cui base, fiduciosa, nuotava la fertile piana.
Oggi siamo ai suoi piedi. Vediamo il massiccio, la cui originalità è costituita dal fatto che nonostante la sua altezza non superi i 1100 metri sprofonda da ogni parte ripido nel mare. Il Gargano, con la sua originalità, si differenzia molto dalle altre montagne su cui ho vagabondato. Ed ho l’impressione che la geologia, la più interessante scultrice del globo, abbia gettato su di esso un mantello ricco di pittoresche falde, irregolarmente e fantasticamente drappeggiato. Queste falde sono le terrazze naturali che gli uomini han ripulito dalle pietre col loro fertile lavoro e ricoperto di alberi.
Le falde del mantello garganico coprono molti segreti. Da lontano sembra che qui regni solo l’arida pietra, ma invece nella profondità di queste falde vivono misteriose foreste, fresche ed ombrose, ricche di faggi, roveri, pini, lecci, castagni. Tra di esse la più interessante, il Bosco di Umbria, piena di fantastici scenari, sembra essere un teatro da leggende poetiche, favole, miti.
In altre falde del mantello garganico si cela il prezioso marmo giallo, tanto ricercato in costruzioni.
Fiordi a strapiombo profondamente incisi si lanciano affannati tra le braccia del mare e, interrotti dall’acqua, creano rive idealmente belle. Le piccole calanche chiuse al vento, con le loro alte pareti di roccia a picco, formano lidi che invitano al riposo ed al dolce far niente.
Molti minuscoli golfi, di forme svariatissime, disegnano le capricciose linee di questa asimmetrica costa. Su uno dei golfi maggiori si stende Manfredonia. Una delle falde del mantello garganico si è qui spiegata più largamente e nel suo abbraccio materno ha dato riparo alla bianca città, di costruzione quasi moderna.
Manfredonia al paragone delle altre nonne pugliesi è una giovane sposa, la di cui età è contata solo in 700 anni. Essa ha fatto la sua carriera sulla disgrazia della sua vicina Siponto, tradita dal terreno malarico. Manfredi, il figlio di Federico II, scelse le rive di questo golfo per la nuova città, non lontano da Foggia, dove nell’urna era custodito il cuore del suo gran padre. Qui cominciò a costruire il suo castello, dette al nuovo nucleo franchigie, privilegi e finanche una zecca. Così gli abitanti di Siponto si trasferirono a Manfredonia.
Il primo Angiò, che con rabbia distrusse ogni ricordo degli Svevi, vietò l’uso di questo nome. Così per un tempo molto breve visse la «Nuova Siponto». Ma il primo nome della città aveva una forza ed un incantesimo suggestivi. Sono passati gli Angiò; Manfredonia è tornata al nome del suo fondatore e mai più lo ha ripudiato.
Guardiamo il golfo, di forma perfetta, che crea il porto più frequentato della provincia di Foggia. In questa aria mattinale esso è calmo, tutto di turchese e sembra essere il prolungamento del cielo. O forse è il cielo che sembra essere il prolungamento del golfo? Poiché i nostri occhi non riescono a trovare la più piccola linea che li separi.
E così, guardando questa enorme calma, questo turchese, questo liscio dell’acqua senza rughe non ci si può immaginare che altra volta questo golfo fu gran lago di sangue, che qui si svolse la lotta di due celebri rivali per il primato marittimo, Venezia e Genova, che in esso affondarono navi, uomini, armi.
Dopo quasi 400 anni dalla fondazione di Manfredi i Turchi, i dopo un crudele assedio, la distrussero quasi completamente portando seco molti schiavi. Tra di essi vi era Giacoma Beccarini che in Costantinopoli divenne sultana. Se oggi vivesse, certo sarebbe sensazionale eroina della stampa del mondo intero. Da schiava a padrona del serraglio non è carriera comune; ma se la carriera porta sempre seco la felicità dovremmo chiederlo all’ombra di Giacoma e forse essa ci risponderà che nel serraglio, tra pareti di maiolica, cuscini e tappeti, essa sognò il golfo manfredonico, la montagna garganica, giusto forse una di queste mattinate calme, di turchese, che oggi ci saluta.
Poiché la felicità si può misurare in due modi: con gli occhi della folla e con il tremore del proprio cuore. Ma queste son due misure del tutto differenti.
Lasciamo la riva ed andiamo all’estremità della cittadina, senza invidiare l’ombra di Giacoma, sultana turca.
Ecco che ci saluta già, dalla nicchia di una bianca casetta, la statua dell’Arcangelo Michele, ricordandoci che siamo entrati nel terreno che in modo speciale è prediletto da questo Celeste Condottiero, che noi siamo sulla terra garganica sulla quale egli ha spiegato le sue ali sansovinesche.
Nell’altra casa un’altra statua simile, che si ripete nella terza, nella decima, è testimone dello speciale rispetto dei garganici.
Più tardi, dopo la partenza, ancora una volta ci giriamo dall’autobus e salutiamo con lo sguardo la bianca Manfredonia che sembra nuotare tra il turchese dell’acqua in basso ed il turchese del cielo in alto. Essa resta dietro di noi come una vignetta appiattita.
La strada da Manfredonia a Monte Sant’ Angelo è una delle più belle del Gargano. In questo giorno che appare come l’annunciazione della primavera ci sembra che non solo al nostro stato d’animo siano sbocciate le ali, ma anche all’autobus. Esso si arrampica lievemente verso l’alto, vince curve e serpentine, rivaleggia con l’aereo, trasportandoci da una falda del mantello garganico all’altra. Le decine di terrazze naturali che l’uomo ha coltivato, solo mezz’ora fa si ergevano imponenti al disopra della nostra testa ed ora son già al nostro livello. Ancora dieci minuti ed esse cadranno ai nostri piedi.
Gli alberi spogli, osservati dall’alto si dispongono in forma di enigmatico alfabeto, formando lettere di stile ebraico sulle pagine delle terrazze. Di colpo, nella rottura di una falda, scorgiamo per la prima volta in quest’anno un albero fiorito, i rosei boccioli che han preso in prestito la loro luce all’aurora.
Tanti alberi in fiore hanno visto nella vita i nostri occhi! I miei occhi, i i vostri, i loro. Nonostante ciò, quando, dopo il vento dell’inverno, vediamo di nuovo i rosei boccioli a noi sembra di vederli sempre per la prima volta. E restiamo meravigliati.
Ecco, questa natura, in cui tutto si divora a vicenda, uomo, animale, uccello, pietra, pianta, verme; nella quale la vita la fortuna dell’individuo è costruita sulla morte e l’invalidità dell’altro, nella quale ogni sazio ha sulla sua coscienza la fame dell’avversario, questa natura più crudele e mostruosa che buona ha creato questo celestiale giocattolo: l’albero in fiore, simbolo di miracolo. Dagli oscuri, secchi rami spuntano i primi boccioli, a decine, a centinaia, ed abbracciano le ossa nuda con un peplo bianco-rosato, come un merletto dal disegno il più raffinato. Il secco scheletro dell’albero risorge.
Vi è in questa trasformazione qualche promessa per l’uomo. Gli occhi che han visto il crimine del secondo uragano mondiale vedono d’improvviso… un albero in fiore.
L’autobus ci solleva sempre più in alto. Ecco un altro albero fiorito, un terzo… Protetto dalle falde del mantello garganico contro il vento, con tutto il suo corpo esposto a mezzogiorno, risorge su questi terrazzi, dopo quest’inverno, più presto di quelli là in basso, nella pianura.
Ecco l’Annunciazione che nessun pittore o filosofo ci ha riprodotto. Se questa visione non ci guarirà, allora quale altra al mondo?
Distrutti, arsi dall’uragano, battuti dal vento infocato, con i resti della linfa vitale forse ancora una volta noi rifioriremo come questi boccioli alle falde del mantello garganico?
L’autobus d’improvviso si ferma. E con questo roseo pensiero, con questa promessa di annunciazione, discendiamo nel regno dell’Arcangelo.
Kazimiera Alberti
(2.continua)
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