Quello dell’autonomia regionale differenziata è un tema complesso. Detto in poche parole, con tale locuzione si intende il processo con il quale le regioni concordano con il Governo l’attribuzione di nuove funzioni, che vengono così trasferite loro dallo Stato. È una possibilità espressamente prevista dalla riforma del titolo V della Costituzione che ha definito anche le materie che possono essere oggetto dell’autonomia: non poche e non secondarie, visto che vi sono comprese la salute, scuola, la tutela e la sicurezza del lavoro, l’ambiente. La procedura è stata avviata ed è a buon punto per tre regioni (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna), ma altre se ne stanno aggiungendo e tutte o quasi centrosettentrionali.
Il bello, anzi il brutto, è che per finanziare tali nuovi funzioni le regioni “autonomiste” chiedono di poter utilizzare i soldi delle tasse pagati dai loro cittadini, sottraendoli così alla fiscalità generale e alle casse statali.
Per evitare che il processo inneschi sperequazioni troppo pesanti tra le diverse regioni, l’art.117 della Carta Costituzionale prevede espressamente che, prima di riconoscere alle Regioni che la richiedono una maggiore autonomia finanziaria, lo Stato deve definire i LEP (livelli essenziali delle prestazioni) che sono i servizi e le prestazioni che lo Stato è tenuto a garantire in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, in quanto consentono il pieno rispetto dei diritti sociali e civili dei cittadini.
Sta di fatto che, mentre il processo dell’autonomia regionale differenziata sta procedendo come un treno, quello che riguarda la definizione dei LEP annaspa (finora ha interessato solo temi tutto sommato secondari, come gli asili nido e alcuni servizi sociali), com’è già successo per i LEA (livelli essenziali di assistenza) che riguardano la sfera sanitaria.
Per le regioni più deboli c’è il rischio concreto che al danno si aggiunga la beffa. Se andrà in porto l’autonomia, le regioni “forti” potranno utilizzare quote più significative della tasse pagate dai loro cittadini. Se non andranno in porto i LEP, i trasferimenti finanziari per i servizi pubblici verranno determinati non sulla base dei meccanismi perequativi previsti dalla stessa riforma del Titolo V della Costituzione, ma sul parametro della famigerata spesa storica, che prevede l’attribuzione delle risorse sulla base di quanto già speso dallo stesso ente in passato per lo stesso servizio. “Così chi già garantiva determinati servizi ha ricevuto di più e chi non li ha mai erogati non riceveva niente“.
Il virgolettato è tratto non dall’analisi di un qualche acceso meridionalista, ma dal sito del Ministro per il Sud e della Coesione territoriale. Come a dire che è lo stesso Governo ad ammettere che il Paese è diviso, e che non c’è in Italia la necessaria coesione territoriale (sollecitata dalla stessa Unione Europea).
Il rischio – anzi la certezza – se non interverranno correttivi è che il divario tra Nord e Sud (determinato da ragioni strutturali, ma anche e proprio dallo scellerato meccanismo della spesa storica e dalla mancata definizione dei LEP) si aggravi, fino a diventare insostenibile.
Per capire la filosofia propugnata dai sostenitori del regionalismo differenziato, è sufficiente leggere un passaggio – veramente da brividi – del documento conclusivo della indagine conoscitiva svolta sul tema dell’autonomia differenziata dalla Commissione Bicamerale per le questioni regionali nel 2017: “La valorizzazione delle identità, delle vocazioni e delle potenzialità regionali determinano infatti l’inserimento di elementi di dinamismo nell’intero sistema regionale e, in prospettiva, la possibilità di favorire una competizione virtuosa tra i territori.”
Avete capito? Lo Stato, che ha lasciato per decenni irrisolta la questione meridionale e il divario Nord-Sud benedice adesso la “competizione virtuosa” tra i territori, il cui esito è scontato in partenza: vinceranno le regioni più forti, a scapito di quelle più deboli.
Per contrastare questo processo c’è solo un modo: la partecipazione e l’iniziativa popolare. Tra i non molti soggetti che fin dall’inizio si sono schierati, senza se e senza ma, contro il regionalismo differenziato c’è la Cgil.
Ed è proprio da una categoria della Cgil, la Flc, che riunisce i lavoratori della conoscenza, ovvero i docenti e il personale di scuole e università, che parte la prima iniziativa popolare di contrasto all’autonomia regionale differenziata che riguarda, e pesantemente, anche l’ambito della pubblica istruzione: una raccolta di forme per una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare che eviti lo smembramento del sistema pubblico di istruzione, già duramente colpito dalla differenze tra Nord e Sud: basti pensare al tempo pieno, che nelle regioni ricche è un diritto riconosciuto ed esercitato, mentre al Sud resta un miraggio, o al fenomeno dell’abbandono scolastico che vede quattro regioni, tutte meridionali (Sicilia, Campania, Calabria e Puglia) ben al di sotto dei parametri dell’Unione Europea.
La Flc Cgil non ci sta: “Tra le bozze già circolanti, a partire da quelle proposte dalle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna leggiamo che si vuole costruire un organico regionale del personale scolastico, si vogliono bandire concorsi regionali, si vuole regionalizzare da subito la Dirigenza scolastica, si vogliono costruire contratti regionali e si vogliono differenziare gli stipendi su base territoriale intervenendo sulla mobilità, sottraendo la materia alla negoziazione sindacale. Si potranno avere docenti regionali e programmi differenziati. Le Regioni potranno fissare ogni anno il fabbisogno occupazionale e di conseguenza indire bandi locali e assumere direttamente il personale scolastico, che sarà dipendente delle Regioni e non dello Stato. A partire dai docenti neoassunti, che potranno diventare automaticamente dipendenti regionali, gli altri saranno incentivati al trasferimento da un aumento di stipendio che potrà essere realizzato grazie all’aumento delle risorse a disposizione delle Regioni, come previsto dai progetti regionalisti. Di fronte a tutto questo, ribadiamo convintamente che l’istruzione deve stare fuori dalle materie oggetto di decentramento regionale.”
È possibile sottoscrivere la proposta di legge costituzionale anche on line, accedendo a questa pagina web. Si può firmare con lo Spid o con la firma digitale. Occorrono 50.000 firme, che non sono poche. Io la mia l’ho messa. Fatelo anche voi.
Geppe Inserra
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