Foggia, ma siamo sicuri di conoscerla?

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Alzi la mano chi, cliccando sul titolo, non ha pensato di apprestarsi a leggere una più o meno approfondita e attuale riflessione su Foggia e la sua identità. Non è così. In realtà, sempre che ne abbiate il tempo e la voglia (io, però, ve lo suggerisco calorosamente) state per leggere un pezzo storico, che scrissi per la Gazzetta del Mezzogiorno ormai più di 40 anni fa. Allora ero un entusiasta collaboratore della redazione foggiana guidata dall’indimenticabile Anacleto Lupo. Sul finire dell’estate del 1981, il direttore, Giuseppe Giacovazzo, aveva promosso un’inchiesta che coinvolgeva tutte le redazioni provinciali, domandandosi se «la Puglia turistica riuscisse ad essere all’altezza della sua tradizione storica e culturale.» Bella domanda, senza dubbio. Lupo mi incaricò di occuparmene, per quanto riguardava Foggia. L’articolo venne pubblicato nella edizione nazionale, in quinta pagina, il 30 agosto 1981.

Ascoltai sulla questione sollevata dal direttore, l’allora sindaco Pellegrino Graziani, e l’allora assessore comunale alla cultura, Aldo Bonante. Rileggendo oggi quella «narrazione» della città – una città in cui cominciava a far capolino la drammatica questione della droga ma che tutto sommato possedeva ancora una certa «consapevolezza identitaria» – non si può non restare amareggiati. Eravamo alla vigilia della tempesta, e ne eravamo in qualche modo consapevoli.

Avremmo potuto e dovuto fare qualcosa di più per evitarla. Non ci siamo riusciti. Buona lettura, e dite la vostra, commentando l’articolo. Alla fine trovate il link per scaricare l’articolo, nella sua versione originale. (g.i.)

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Inchiesta dopo l’estate: la Puglia turistica riesce ad essere all’altezza della sua tradizione storica e culturale?

Foggia: ma siamo sicuri di conoscerla?

Una popolazione con una percentuale sempre più cospicua di immigrati ignari di ogni tradizione – Pressoché escluso dalla vista dei cittadini il monumento più rappresentativo – Al centro restano i vecchi monumenti

FOGGIA – Un indice di immigrazione che, per un comune di 160mila abitanti, è vertiginoso: circa 3mila unità all’anno. Soltanto negli ultimi 20 anni, e soprattutto dai comuni della provincia, sono arrivati nel capoluogo in 60mila. Ad andarsene, invece, sono stati, nel medesimo periodo, 62mila ovvero 2mila in più. Verosimilmente, l’emigrazione ha colpito in misura maggiore la popolazione già residente che non quella di recente immigrata. Bastano queste cifre a porre un interrogativo: esiste ancora una foggianità?

Non è un problema di campanile, ma di cultura. Non si tratta versare lacrime sulle «tradizioni che non esistono più», ma di interrogarsi seriamente sulla progressiva perdita di identità storica, sociale e culturale di una città che, come afferma il suo sindaco, Pellegrino Graziani, «è cresciuta troppo in fretta e si trova oggi a dover affrontare tutti problemi che sono connessi a una così profonda crisi di crescita.»

Foggia città-provincia, ma senza averne ancora la mentalità e forse nemmeno la volontà. Quanto si è detto e si è scritto attorno a questa Foggia «che comunque resta un grande paesone, dove si conoscono tutti e tutti si vogliono bene»? Ma è questa un’immagine che appartiene ormai all’album del ricordi. La periferia è sempre più periferia, sono nati i quartieri satellite, i quartieri-dormitorio.

«Foggia una città che deve inventarsi», sostiene l’assessore comunale alla cultura, arch. Aldo Bonante. È l’invito ad uscire dal provincialismo, ad aprire gli occhi sul presente.

Forse è per questo che il cartellone dell’edizione 1981 di «Foggiestate», manifestazione culturale promossa proprio dall’assessorato municipale alla cultura, ha proposto un menu piuttosto diverso dal solito. Musica sinfonica, operistica, jazz, folklore, balletto. Ma quel che ha destato maggiormente impressione è stata la nutrita presenza di gruppi stranieri. Su una ventina di formazioni, più della metà proveniva dall’estero.

«Una scelta non occasionale», come spiega Bonante. «Foggia non può più restare esclusa dal grandi flussi culturali internazionali, a pena di finire in un provincialismo culturale da area sottosviluppata.»

Questo non vuoi dire che si debba trascurare la «memoria storica», votandosi ad una cultura d’importazione che, comunque, non riuscirebbe a mascherare la carenza di un solido retroterra «indigeno». Inventarsi la città va bene, ma a patto che non ci si dimentichi di «scoprirla». Quanti sono i foggiani (di nascita o acquisiti) che possono dire di conoscere veramente la loro città?

Ben pochi, dal momento che, per esempio, «u pataffje», il monumento forse più rappresentativo dell’antica Foggia, resta pressoché escluso dalla vista dei cittadini, occluso com’e su due del quattro lati da orrende costruzioni chissà come consentite.

Un esempio tra tanti che si potrebbero citare sul centro storico, che sta sempre più ghettizzandosi ed impoverendosi. Le abitazioni vuote diventano sempre di più. I giovani vanno via, preferiscono abitare in periferia. Restano soltanto i vecchi monumenti (soggetti a un progressivo e preoccupante deterioramento).

E mentre il cuore della città sta morendo, la periferia non è ancora riuscita a conquistare un suo proprio modo di vivere. Manca la possibilità di ritrovarsi, le occasioni di socialità sono poche. Dopo le 21, perfino d’estate, è difficile trovare qualcuno per strada. L’alternativa è fra il bar e la televisione.

È uno spleen sottile, al quale non sottraggono neppure i giovani. Il loro simulacro sono i «giardinetti», un fazzoletto di verde e di asfalto a ridosso di piazzale Italia, luogo di concentramento di 3-4mila ragazzi per sera. Nacque, come fenomeno, all’epoca della «contestazione giovanile». Vi si riunivano gli studenti ai quali il preside non aveva concesso l’aula magna per l’assemblea. Oppure si ritrovavano lì per organizzare lo sciopero dell’indomani.

Adesso serve per esibire l’impianto stereo montato sulla moto fiammante. E nelle strade circostanti hanno cominciato a fare la loro apparizione siringhe vuote, gettate via dopo l’iniezione di eroina.

Ecco perché il problema culturale è forse uno dei più gravi e importanti della città. «Cultura è anche abituarsi a vivere nelle strade, ad amare questa città, a inventarla diversa, aiutarla a crescere umanamente». Così conclude l’assessore Bonante, mentre pensa a un «progetto culturale» per la città, al quale ispirare l’azione dell’amministrazione comunale nel prossimo quinquennio.

Obbiettivi, appunto, la «riappropriazione» e la riscoperta di una città che, nel corso della sua storia, ha cambiato continuamente volto. Dai terremoti che l’hanno rasa al suolo, agli eventi bellici che l’hanno dilaniata.

E soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, alla quale Foggia ha offerto un olocausto di migliaia di vittime. Dopo la distruzione si è pazientemente ricostruita. Ancora volta si è lentamente e inesorabilmente trasformata. Forse è logico che siano in molti a non riconoscerla più. Ma non un buon motivo per non amarla.

Geppe Inserra

[Per scaricare l’articolo nella sua versione originale, cliccare qui.]

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