Foggia e la Capitanata hanno ormai cessato da tempo la loro funzione di area laboratorio, che tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso li portò a venire indicate quali aree canguro, che marcavano il più elevato tasso di riduzione del divario con il Centro Nord. Merito di tante belle teste pensanti e di lucide intelligenze, ma anche di una classe dirigente – politica e sindacale – che all’uovo di oggi preferiva la gallina di domani, che non si accontentava dello status quo economico e sociale: sapeva pensare in grande, si assumeva la responsabilità della costruzione del futuro.
Tanto per dire, e per ricordare, proprio agli inizi del decennio ottanta, la Provincia guidata dall’indimenticabile Francesco Kuntze, la Federbraccianti Cgil capeggiata da una straordinaria sindacalista quale Donatella Turtura, e il Consorzio di Bonifica, attraverso la Tecnagro, associazione sostenuta da colossi industriali come Fiat ed Enichem, si “sfidarono” proponendo tre distinti progetti di sviluppo della Capitanata. Nessun’altra area del Mezzogiorno poteva vantare tanta ricchezza creativa. A collegare le tre progettualità c’era una forte ed alta visione del territorio che veniva visto come risorsa essenziale da investire per lo sviluppo: il grande, variegato, irripetibile territorio della provincia di Foggia.
Quei grandi progetti sono rimasti, in tutto o in parte, al palo. Quella tensione politica e progettuale è andata via via sfumando. Ed è un peccato, perché il tempi di PNRR e di una sempre più accentuata competitività tra i diversi territori sarebbe necessario ritrovare la voglia di pensare e di sognare in grande.
Per fortuna, però, c’è chi non si arrende. Ho ritrovato questo desiderio, questa ansia profetica in un articolo del mio amico Eustacchio Franco Antonucci pubblicato su Mentinfuga, che era inizialmente una rivista di notevole caratura progettuale, e adesso un sito molto interessante e stimolante, che ospita i contributi degli autori e degli iscritti all’omonima associazione.
Franco ha accompagnato il link all’articolo con poche frasi, che hanno tuttavia innescato la voglia di leggerlo: “Ringrazio ancora per la tua pazienza. Sono convinto che Foggia ha bisogno anche del recupero delle sue Aree interne.”
L’ho letto e riletto, e sono io che devo ringraziare Franco per avermi fatto ritrovare e respirare quella voglia di futuro che animava la Capitanata qualche decennio fa. Intitolato “I borghi del Subappennino dauno. Una risorsa di territorio“, più che un articolo è un longform, che propone un autentico ribaltamento di prospettiva. Finora il Subappennino è stato concepito come un’area problematica, debole, sottosviluppata. Ma cosa accadrebbe se, invece, la collocassimo al centro di una nuova, originale, strategia di sviluppo che riguardi non solo l’area collinare, ma l’intero territorio provinciale, capoluogo compreso?
L’idea di partenza riecheggia le intuizioni degli anni Ottanta: ripartire dal territorio, dalla sua ricchezza, elevarlo a risorsa di sviluppo.
La necessità di questo rivolgimento culturale, di prospettiva, coraggioso e innovativo, è dichiarata senza riserve già nell’incipit: “I borghi del Subappennino dauno – Monti Dauni -, sono uno scrigno segreto dell’antica terra di Capitanata, bellissima, geo-morfologicamente variegata e fragile. Anche troppo grande e polarizzata a maglie larghe, tanto da non riuscire ancora a stabilire una propria sinergia unitaria, capace di esprimersi a voce unica. Ed è una fortuna, forse, essere ancora ad uno stato di “origine” vergine, perché restano praticamente intatti i depositi di oro territoriale antico.
È tempo, invece, di riscoprire i valori, passando per il passato, e correndo subito verso il futuro… Un riscatto proprio ora, per inventare un nuovo sviluppo, magari partendo dal basso o “dall’interno”. Ciascuno aiuta l’altro, per superare l’emergenza in scioltezza. Proprio ora, nel mezzo di incastrate crisi epocali, prima economiche, quindi pandemiche mondiali, quindi belliche “in casa Europa”. Fino all’inverosimile di un progetto impossibile: che siano le Aree interne a donare nuove soluzioni globali. Riscoprendo valori veri, contro un mondo moderno sempre più artefatto.” Bello, ardito, interessante, senza dubbio provocatorio.
Il longform è molto approfondito e dettagliato. Al centro c’è un’attenta disamina delle diverse opportunità finanziarie, ma anche politiche, su cui il Subappennino potrebbe contare per cambiare marcia e per diventare fattore propulsivo di una stagione di sviluppo di segno nuovo, con l’invito ad assemblarle tutte in una logica unitaria, in cui il Subappennino diventi esso stesso un soggetto unitario di sviluppo. “Borghi trainanti e non trainati, come fossero peso morto“, scrive Antonucci. Particolare attenzione viene riservata al pezzo più pregiato e al tempo stesso emblematico delle potenzialità inespresse dell’area: il Rione Fossi di Accadia, di cui l’autore auspica un recupero funzionale integrale e complesso: “Superando la nostra solita razionalità fredda dell’era urbanistica moderna, in vista di un nuovo Millennio, potremmo proporre questo modello concettuale come esportabile ovunque. Non più divaricante tra ragione e sentimento e bloccati sull’eterno presente. Il Borgo Fossi di Accadia, era, in tempi lontani, un “crocevia” di tre Regioni (Puglia, Campania, Lucania), conteso fino a tempi relativamente recenti, quindi con una notevole rilevanza strategica territoriale, come ancora potrebbe tornare ad essere. Parametro anche questo che tuttora, in tempi di ri-progettazione urbana-territoriale diversa, onnicomprensiva e a partire dalle emergenze multiple, può proporre nuovi effetti di coinvolgimento.”
Come raggiungere questo obiettivo? È necessaria una nuova stagione della pianificazione territoriale di area vasta, che superi le visioni frammentarie e municipalistiche che l’hanno viziata negli ultimi decenni, ed inneschi quella Antonucci definisce nuova urbanistica, “che non si fa più sulla base di limiti amministrativi. Ora sono le specificità progettuali a dettare nuovi procedimenti, anche spaziali, secondo necessità, sulla base di territori “veri”. Concetto ancora più sensibile nel caso di “territori fragili” come le Aree interne, facendo emergere tutti i difetti e pregi, soprattutto le potenzialità latenti, di cui nessuno si è ancora accorto. Cercare, scavare, mettere a nudo (anche con il sentimento), per scoprire quello che la razionalità ci ha impedito di vedere. Potenzialità archeologiche ignote, storiche-artistiche, naturali-paesaggistiche, ambientali, ed alla fine, anche emozionali”.
Vi invito a leggere per intero il longform. Ne vale davvero la pena. Lo trovate cliccando qui.
Geppe Inserra
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