Il rito del galluccio cominciava due o tre giorni prima di Ferragosto, quando nonno Peppino andava al mercato Ferrante-Aporti a comprare il pennuto che sarebbe stato sacrificato sulla tavola della festa.
Ne sceglieva uno di ragguardevole dimensione, perché quando sarebbe arrivato il momento avrebbe dovuto sfamare sei bocche. Sicché il galluccio, vezzeggiativo che sta per gallo giovane, era il più delle volte un gallo bell’e fatto, d’una certa età. È una tradizione prettamente foggiana, c’è chi dice addirittura terrazzana (i terrazzani sono, per chi non lo sapesse, gli abitanti dell’antico rione delle Croci, cuore vivo e pulsante della città vecchia). In effetti non si trovano ricette simili nelle altre province pugliesi o meridionali. Una volta, quando l’abitato cittadino era quasi interamente composto da pianterreni e case basse, era un’usanza diffusa allevare nei cortili animali di piccola taglia, per lo più volatili, come galli, galline, piccioni. Giunta la festa li si sacrificava, per dare sapore alla ricorrenza che nel caso di Ferragosto ha Foggia ha duplice valenza, in quanto coincide con la festa patronale della Madonna dei Sette Veli.
Ma torniamo a nonno Peppino.
Giunto a casa, sistemava il volatile nella vasca da bagno, che, come s’usava a quei tempi, a tutto serviva, fuorché a fare il bagno.
Gli legava una zampa con una cordicella annodando l’altra estremità al rubinetto, in modo che potesse godere di una certa libertà di movimento, senza poter volare via. Per me e mio fratello Attilio era un divertimento sbirciare dalla porta socchiusa del gabinetto, per guardare l’espressione della povera bestiola, il suo sguardo fiero, perfino altezzoso, certamente ignaro della sorte che stava per toccargli.
Ci divertiva anche dargli da mangiare: briciole di pane raffermo inzuppate in un po’ acqua. La sera della vigilia, il nonno procedeva alla esecuzione. Dopo aver immobilizzato il galluccio tra le gambe, con una mano gli torceva il collo e con l’altra, impugnando un coltello affilato (ne avevamo uno adibito proprio a questo scopo) gli recideva la giugulare.
Noi assistevamo alla esecuzione un po’ incuriositi, un po’ rattristati.
Mia nonna era pronta a raccogliere il sangue che defluiva in un tegame. Lo avrebbe fritto per servirlo a cena: una leccornia d’altri tempi, ma anche la dimostrazione non non si buttava nulla che fosse in qualche modo commestibile.
A me faceva un po’ senso, ma la nonna quasi mi obbligava a mangiarne, perché – diceva – faceva bene, era nutriente e metteva sangue.
Una volta chiesi al nonno se gli piacesse uccidere il pollo, e lui mi rispose di no, perché è sempre brutto sopprimere una vita. Allora gli domandai perché non lo comprasse già macellato e spennato, e lui ribatté che non era la stessa cosa, che quelli già uccisi chissà da dove arrivavano. E poi non avremmo potuto mangiare il sangue fritto.
Sulla tecnica di uccisione in famiglia – che a quei tempi era sempre molto allargata in quanto comprendeva una congerie di compari – c’era una vivace discussione. Il compare Antonio, che di mestiere faceva il ciabattino e che di ferri doveva quindi intendersene, sosteneva che era meglio limitarsi a storcergli il collo. Secondo i sostenitori di questa tecnica, spezzata la colonna vertebrale, e deceduto il galluccio, bisognava appenderlo a testa in giù, in modo che il sangue defluisse al collo, che poteva essere poi mangiato lesso, sangue compreso.
Anni dopo avrei imparato che il metodo di nonno Peppino è il più indolore per i polli. Ma quelli non erano tempi buonisti, come adesso.
Non che la gente fosse cattiva: piuttosto era fatalista. Ognuno aveva il suo destino, e quello del galluccio era di morire a quel modo, e di contribuire al nutrimento dell’umanità.
Delle operazioni di spennatura e di pulizia si occupava mia nonna. Passava l’animale per tre o quattro volte in acqua bollente: pare che così le penne vadano via più facilmente. Completava l’operazione scottando poi il gallo, ormai privato del piumaggio, sulla piastra elettrica appositamente arroventata, per eliminare i residui di piume e di peli.
Il Galluccio ripieno del ferragosto foggiano è una sorta di piatto unico, monumentale e saporitissimo, perché con il sugo della cottura si condisce la pasta. Cosa che a me piaceva da matti perché a quell’età non mi piaceva il ragù della domenica fatto in genere con gli involtini di vitello, ovvero le braciole foggiane. Non mi piaceva il colore scuro, e scansavo accuratamente i pezzettini di carne che si staccavano della cottura.
Con il galluccio è diverso. Protetta dalla pelle, la carne non non si disfa durante la cottura, e il sugo che ne viene fuori, oltre che di un rosso più vivace di quello del ragù di vitello è meno denso, più dolce. Era il mio piatto preferito assieme al ragù finto, che consisteva nel sostituire gli involtini di carne con polpette di pane, un altro monumento, quasi dimenticato, della cucina del secolo scorso.
Vorrei che nonna avesse lasciato scritta la ricetta. Non ne era il tipo: allora si cucinava per dovere, più che piacere, anche se inventarsi piatti saporiti e nutrienti con i pochi soldi che si potevano devolvere al vitto, era un’operazione inevitabilmente creativa.
Sono persuaso che la cucina sia la prima forma di espressione culturale di una comunità. E dico cucina: non gastronomia o arte culinaria o peggio ancora, come si dice oggi, gourmet. Il modo di preparare le pietanze, di tirare fuori sapori da cibi poveri, svela il rapporto che una comunità stabilisce con l’ambiente, la realtà che la circonda.
E questo rapporto, che produce reciproco adattamento, è la forma primigenia di cultura.
Nonna Carmela era una donna austera. Ci voleva un bene dell’anima ma dava poco a vederlo, se non quando si privava di uno sfizio, di un po’ di spiccioli che aveva messo da parte, pur di non farci mancare una maglietta nuova o un gelato, o spedirci dal barbiere per tagliare i capelli.
Ma torniamo al nostro pennuto ormai divenuto un bel piatto della festa. Visto che non ha lasciato ricette scritte ho a disposizione soltanto i sapori della memoria per venirne a capo.
Il bello del galluccio di Ferragosto è che si utilizza proprio tutto dell’animale. La base del ripieno è rappresentata infatti dalle interiora, che si ottengono eviscerando la bestiola, dopo averla aperta, praticando un foro nelle parti basse.
Le interiora possono essere estratte con la mano, facendo attenzione a non rompere il sacchetto che contiene la bile, che va gettato via. È quindi il caso di lavare e sciacquare ripetutamente il pollo, in modo da ripulirlo da eventuali impurità.
Le rigaglie vanno tagliate finemente (ci si può aiutare con le forbici) e messe a soffriggere in olio bollente. Poco prima che siano fritte, il ripieno può essere insaporito con una manciata di pinoli e uvetta passa e quindi va completato con l’aggiunta di quattro uova, sbattute e salate in precedenza. Non appena la frittata si è rappresa, si fa asciugare il composto e si procede alla farcitura del galluccio, che a questo punto viene cotto, a fuoco lento, nel sugo di pomodoro.
Considerato che siamo in agosto, si usava rigorosamente pomodoro fresco, che veniva passato. Sarebbe stato un inutile spreco utilizzare la conserva, tanto più se acquistata dal pizzicagnolo.
La salsa va aggiunta nel tegame dopo che si è fatto soffriggere per alcuni minuti il pollo ripieno in olio e cipolla tritata finemente. Qualora il sugo si asciughi troppo, durante la cottura può essere aggiunta acqua.
Nel mio ricordo, con il sugo del galluccio, dopo essere stati insaporiti con un’abbondante spolverata di pecorino, venivano conditi semplici maccheroni, e non pasta fatta in casa, come troccoli o orecchiette. Ma, a pensarci bene, doveva usarsi così proprio perché era festa, mentre la pasta fatta in casa era qualcosa di più quotidiano.
A casa usavamo gli ziti, che si compravano sfusi e lunghi dal salumiere, che li incartava utilizzando una caratteristica carta azzurra.
Ciascun zito doveva essere spezzato con le mani, e alla preparazione contribuivamo anche io e Attilio, il che dava loro un aspetto irregolare e artigianale. Inutile dire che nelle pentola finivano anche i frammenti prodotti dalla spezzatura.
Un tocco naif, ad un irripetibile piatto regale.
Geppe Inserra
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Il nedesimo rito si ripeteva tale e quale anche a casa mia in paese più o meno con le medesime figure famigliari. Qui il galluccio si prendeva dalla gabbia dei polli, che ogni casa aveva accanto alla mirte. Ricordo che l’uccusire pronunciava la fatidica frase di origine latina”mors tua, salus mea”. Sul tema ricordo una amenità che vude protagonista un mio compagno di scuola, avvocato da poco deceduto in quel di Milano. Si chiamava Ninnillo, diminuitivo di Angelo. Una volta si ripassava Leopardi a Casa mia. Alla mia domanda: quali sono i canti di Leooardi. Puntualmente dimenticaca quello relatvo al gallo silvestre. La questione si ripeteva più, tanto che io oer fargli ricordare l’esattezza, suggerii ad un certo punto: che si mangia a Ferragosti! Ed egli: il galluccio,vaggiungendovi poi l’aggettivo silvestre. Il lapsus continuò abcira, oersino all’esame, allorché al domanda in questione Ninnillo impassibile ruspose: il galluccio silvestre. E fu promosso.