I sapori sono memoria viva, finestre sul passato, oblò della coscienza. In Dalla parte di Swann di Marcel Proust, il protagonista va incontro ad un’emozione intensa e improvvisa mentre mangia una madeleine, pasticcino tipico francese, sorseggiando una tazza di tè. Inizialmente non sa spiegarsi le ragioni di quella “gioia violenta” che sente però “connessa col gusto del tè e della madeleine“.
Poi, improvviso e prepotente riaffiora alla sua coscienza, un ricordo, “disormeggiato da una grande profondità”. Quando era ragazzo, e la domenica mattina andava a darle il buongiorno, sua zia Leonia gli offriva un pezzetto di madeleine, inzuppato nel tè.
La madeleine di Proust non è solo un topos letterario. I neuroscienziati parlano di “effetto Proust” per indicare la memoria involontaria che viene evocata da un sapore, da un odore, un oggetto.
A me succede di sperimentare direttamente l’effetto Proust, ogni volta che mangio un buon timballo di maccheroni. Anche in questo caso c’è una zia di mezzo: zia Elisa, la moglie di zio Ciccillo (Francesco Episcopo), il più grande dei fratelli di mia madre Assunta.
Il suo timballo – che mangiammo una domenica d’estate, in una scampagnata alla pineta di Santa Maria di Siponto – mi ha cambiato la vita.
Prima di allora, aborrivo il ragù di carne e non mangiavo pietanza alcuna che lo contenesse. Ma quella domenica, era tutto così diverso, così bello.
Era il 1968. Mia madre non c’era più, da qualche mese era volata in cielo. Quella gita era la nostra prima uscita familiare, dopo i mesi del lutto. Perfino mio padre Carlo, piuttosto restio ai pic nic, era sereno. Ed era già tanto veder tornare sul suo viso un timido sorriso.
Non mi spiego come salimmo in tanti sul suo Maggiolino. Credo che all’epoca il codice della strada non imponesse ancora un numero massimo di passeggeri all’interno del veicolo. O forse qualcuno venne in treno.
Eravamo in otto. Oltre ai grandi, c’eravamo tutti i cugini: Attilio “grande” (così soprannominato per distinguerlo da mio fratello), Pasquale, Ida, Attilio “piccolo”, e io. Cinque ragazzi tra gli undici e i diciassette anni con la fame che si poteva avere soltanto a quella età, e che cresceva con il trascorrere della mattinata, acuita da corse e giochi. A quei tempi non c’erano mica le merendine e gli snack, a “spezzare” la fame.
E così, finalmente, arrivò l’ora di pranzo.
Il timballo è un rito che si consuma in gesti lenti, che procedono dalla minuziosa preparazione dei tanti ingredienti , fino al trasporto e all’impiattamento. Per il breve tragitto, zia Elisa aveva avvolto le teglie in canovacci annodati con cura.
Quando li svolse, dai recipienti proruppe un tripudio di colori, un bendiddio di aromi e di profumi.
Figuratevi il mio disappunto quando mi accorsi che la pasta era stata condita con il ragù di carne mentre zia mi porgeva il piatto, bello colmo. Abbozzai un timido “non ho fame, non ne voglio”… ma suppongo che zia Elisa avesse preparato per me, quel giorno, una sorta di rito di iniziazione gastronomica. “E assaggia – ribattè – … assaggia e poi mi dici…”
Cominciai a servirmene, più per non darle un dispiacere, per non turbare l’atmosfera della comitiva, che non per convinzione.
Al primo boccone mi dissi che non era poi così male, quell’intrecciarsi di sapori e colori, di ingredienti e di gusti. Al secondo ero già convinto che il vero must di un buon timballo sono le polpettine di carne fritte, al terzo ero ormai in piena trance organolettica.
C’era un’armonia profonda di sapori, impreziosita dalla perfetta cottura dei rigatoni, al dente e al tempo stesso appena bruciati nella parte superiore. La zia serviva le pozioni tagliando grosse fette triangolari, la teglia che man mano si svuotava sembrava lo scrigno di un tesoro.
Feci il bis e forse anche il tris. E da quel giorno sono assolutamente e irreversibilmente persuaso, che non può esistere un buon timballo senza il ragù di carne, e che quello di zia Elisa resterà scolpito nei miei più bei ricordi.
“Come a Proust ogni oggetto sussurrava ricordi lontani e sepolti, così a me ogni cibo rammenta tempi perduti o ritrovati” scrive Ugo Tognazzi ne L’abbuffone, libro che andrebbe riscoperto e riletto, in quest’epoca consacrata alle diete e alla fitness – . La gallina bollita, per esempio, mi fa riandare alla nonna, alle domeniche di Cremona, alla mostarda; e i lamponi freschi mi ricordano lontane e rare villeggiature in montagna coi miei genitori.”
Il timballo mi porta dritto dritto a quella domenica a Santa Maria di Siponto.
* * *
Adesso è arrivato il momento di raccontarvi, almeno per sommi capi, gli ingredienti e la ricetta di questa monumentale espressione della cucina pugliese. Me li sono fatti dare da zia Elisa in persona, grazie ai buoni auspici di mio cugino Pasquale Episcopo, con cui condividiamo la stessa passione per le radici, l’identità, il passato della nostra terra e della sue gente. (Lui si occupa, però, di cose assai più serie, e sta portando avanti da anni la meritoria iniziativa della Stele di Federico II a piazza Nigri e, più in generale della riscoperta della identità fredericiana della città di Foggia).
Avviso preliminare: il timballo è comunque un gioco di incastri, un mosaico da comporre che si presta a tante varianti. Gli ingredienti non sono rigorosi. Come già detto, quelli che fanno la differenza sono il ragù, che dev’essere di carne e dev’essere buono, e le polpettine.
Ed ecco gli ingredienti, così come mi sono stati riferiti da mio cugino Pasquale: “rigatoni, ragù di carne di vitello, polpettine di carne di vitello, mozzarella, parmigiano. Piselli come anche mortadella a straccetti sono una variante non sempre adottata. Importanti sono gli ingredienti delle polpettine che devono essere morbide (vitello magro, uova, mollica imbevuta nel latte, parmigiano, aglio, sale, pepe). Il ragù come anche il parmigiano deve essere abbondante. “
Qualche riflessione. Il ragù di carne dev’essere come si faceva una volta. No al macinato (siamo in Puglia, mica in Emilia), meglio carne a pezzi oppure involtini ripieni. Visto che è il sapore predominante, non è di poco conto scegliere una buona salsa. All’epoca non si comprava già pronta, ma la si faceva in casa, oppure utilizzando le bottiglie dell’immancabile conserva. Era piuttosto frequente aggiungere alla salsa un tanto di concentrato, per rinvigorirla.
La pasta: mi sembra sacrosanta la scelta dei rigatoni. Tengono meglio la cottura, e si sposano alla perfezione con il resto degli ingredienti, lasciando che il sugo si insinui nella scanalature della pasta.
Le polpettine devono essere rigorosamente fritte. Se si mettono a cuocere nel sugo non sono la stessa cosa, rovinano pure il ragù. Ribadisco: il timballo è un puzzle. Si può anche arricchirlo di tessere, ma occorre che alla fine vi sia un equilibrio complessivo. Ciò che conta è l’armonia finale, l’equilibrio.
Quanto a piselli e a mortadella, giurerei che ci fossero gli uni e l’altra nel leggendario timballo di Santa Maria di Siponto. Servono a creare, oltre che una ineffabile tonalità cromatica che fa somigliare il timballo alla tavolozza di un artista, anche il giusto equilibrio agrodolce.
Si può ragionare se usare il parmigiano, così come suggerisce zia Elisa, o il pecorino. È questione di gusti. Il parmigiano mantiene più morbido il sapore, contribuisce all’equilibrio dell’assieme, all’armonia di cui si è detto. Il pecorino rende il timballo più salato e il gusto più deciso.
Nell’un caso e nell’altro, scommetto che chiederete il bis.
Geppe Inserra
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Carissimo Geppe, con la tua abile penna hai saputo condire i bei ricordi passati insieme. Con affetto Attilio ‘u gruss.
Uno squarcio di vita vissuta. Celebrazioni culinarie, relazioni parentali,domeniche profumate di ragù,profumi che raggiungevano le strade. Un mondo forse perso, ma che grazie a questi articoli sopravviverà nella mente e nei cuori di chi quei momenti li ha vissuti. Grazie per questi incancellabili ricordi
La ringrazio veramente per il suo sincero apprezzamento, che provvederò a far giungere a zia Elisa.