Di Francesco Saggese ammiro la capacità di guardare le cose abbracciandole, carpendo l’intimo nesso che hanno con il tempo, e con la vita.
Quest’anno Francesco non potrà tornare nella sua Vico del Gargano in occasione della festa patronale di San Valentino. Spera di farlo per la Settimana Santa, che nella cittadina garganica è qualcosa di magico e di speciale, anche per presentare il libro che ha scritto sull’argomento (La settimana Santa di Vico del Gargano) assieme a Pasquale D’Apolito e a Francesco Pupillo (un libro importante e particolare, di cui vi parlerò presto).
Il volume è uscito da qualche mese, ma la pandemia e il distanziamento sociale ne hanno fino ad oggi ritardato la presentazione. Intanto Francesco pensa a San Valentino, alle arance mature e splendide nel loro tripudio di colore, che regalano un presagio di normalità. Forse il peggio è passato.
È un’attesa carica di speranza, che però non può fare a meno di volgere lo sguardo ai due anni che abbiamo trascorso. Lo sguardo intenso e impareggiabile di Francesco che abbraccia tempo e cose diventa così racconto.
Racconto di una normalità ed una quotidianità negate. Racconto di una vita che riprende.
La narrazione che Saggese regala ad amici e lettori di Lettere Meridiane è preziosa. Ci aiuta a capire, a non dimenticare. Ci offre una bussola per ammirare con occhi nuovi, più consapevoli, il miracolo di colore delle arance di Vico del Gargano che incorniciano il trono di San Valentino. Leggete, e ammirate le fotografie di Pasquale D’Apolito. (Geppe Inserra)
* * *
Era un giorno di febbraio di due anni fa.
La mia collega di lavoro venne chiamata dalla scuola elementare del suo paese, perché bisognava andare a prendere con urgenza i bambini.
Il suo paese, a pochi chilometri da Codogno, era nella lista dei territori della prima zona rossa d’Italia; poi una serie di telefonate: «Ma che succede?», «Si tratta di precauzioni di qualche settimana», «Non potrai venire al lavoro».
Ai primi di marzo mi sono messo in fila davanti a un ferramenta, per comprare la prima mascherina, venduta fino a quel momento ai taglialegna, ai tinteggiatori, …
Le mimose sul Gargano si coloravano di luce gialla quando l’Italia veniva chiusa. Anch’io correvo dentro al supermercato per comprare la farina, il lievito, il latte; sudavo tra le sue corsie quando incrociavo qualche altro carrello spinto a mano.
Dal mio ufficio vedevo correre impazzite su un pezzo di tangenziale le ambulanze, con il loro suono lamentoso, ininterrotto.
Stava arrivando la primavera, quando nel posto in cui parcheggiavo la mia auto, Samaritan’s Purse costruiva un ospedale da campo con terapia pre-intensiva e intensiva.
Le conferenze stampa della Protezione civile alle diciotto.
Ad aprile la Settimana Santa del mio paese non si sarebbe potuta svolgere, e al carico di malinconia che avrebbe accompagnato quei giorni, si aggiunse l’attesa che la spunta delle notifiche di whatsapp inviati ad A. si colorassero di azzurro.
Così non fu, perché il covid fu più feroce e vinse.
A maggio due germani vennero a nuotare sul telo ricoperto d’acqua piovana che copriva una piscina sotto casa.
Le sirene delle ambulanze suonavano ancora ed erano forti gli applausi sui balconi, per il resto il silenzio asciutto della città ferma.
A giugno ero stanco, volevo scalare una montagna o passeggiare in un paese portoghese, ma potevo respirare, lo stesso respiro che mancava a migliaia di persone, lo stesso respiro che manca ancora.
A luglio rividi la mia collega, le mascherine non erano più obbligatorie all’aperto e si poteva uscire di casa, così, tra le precauzioni del caso, corsi ad abbracciare la mia famiglia a Vico; mia madre mi abbracciò forte.
Ad agosto il mare portò con sé una piccola speranza che forse le cose erano risolte, ma settembre ci fece capire che così non era.
Le scuole d’Italia riaprivano tra la paura.
Ad ottobre e novembre la curva saliva ancora.
Dicembre portò con sé un Natale nuovo, a tratti più autentico, ma più complesso da vivere; la scienza ci donò il vaccino.
E poi gennaio, divieti, mascherine, gel, isolamenti e la neve che indisturbata scendeva sulle montagne.
Arrivò un’altra volta febbraio e il covid mi portò un carico di dolore che ho stretto nel cuore e ci rimarrà per sempre e il cielo sa perché.
Prima, seconda, terza dose.
Passò un altro anno sospeso.
L’altra sera ho inviato un messaggio ad Ignazio per chiedergli se hanno già allestito il maestoso trono di arance che fa da decoro a San Valentino.
Mi ha risposto che la struttura è pronta e che lo allestiranno nei prossimi giorni.
Ed è come se si aprisse una finestra, ed io vorrei essere lì, almeno per un attimo, almeno per un po’ ad intrecciare “marròcche” che daranno vita al maestoso trono di San Valentino, unico al mondo.
Poi vorrei sentire le campane della Chiesa Madre, che da secoli si rincorrono una dietro l’altra, come sentivo da piccolo, quando puntuale arrivava la neve, quando la banda suonava per le strade dietro il Santo con l’indice puntato verso l’alto e il vento freddo che gonfiava gli stendardi delle confraternite.
Ma ora siamo qui con il carico sulle spalle di due anni che non avremmo mai voluto vivere e che hanno segnato le nostre vite per sempre.
C’è chi se n’è andato e non ritornerà più.
Mai più.
C’è chi lotta ancora.
A me è rimasta in mano la bussola della mia vita, con cui scegliere ancora, muovermi ancora, decidere ancora.
Così in questi giorni la oriento verso il giorno del Patrono del paese e verso i nuovi giorni che di seguito arriveranno, perché saranno illuminati dalla primavera, riscaldati dal suo tepore, travolti dalla sua rinascita.
Francesco A.P. Saggese
[Fotografia di Pasquale D’Apolito]
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