È ipocrita l’indignazione di qualche ora ogni volta che una morte violenta accade. È retorico chiedersi perché esistono i ghetti. È nascondere la testa sotto la sabbia quando si considera lo sfruttamento una questione che non ci tocca da vicino. È voltarsi dall’altra parte quando si afferma pubblicamente che i ghetti invisibili (“invisibili”?, sic) non devono più esistere, indicando come soluzione la scorciatoia dello sgombero, come se una volta sgomberati possano sparire anche le cause che ne li hanno fatto nascere.
Non sono morti di fatalità Birka di 4 anni e Christian di 2, bruciati nella baraccopoli di Stornara il 17 dicembre. Non è morto di fatalità Ivan, ucciso a 20 anni, carbonizzato nella baracca il 9 dicembre 2017, nell’agglomerato di sassi, lamiere e fango chiamato “ghetto dei bulgari”, poi sgomberato anche questo. Non sono morti di fatalità i dodici braccianti che il 6 agosto del 2017, stipati in un furgone che si schiantò contro un tir carico di pomodori, tornando dalle campagne foggiane dopo aver raccolto pomodori. Neanche gli altri quattro di qualche giorno prima in un altro scontro frontale. Non sono morti di fatalità Mamadou e Nouhou, anche loro bruciati nel grande ghetto in prossimità di Rignano Garganico il 3 marzo 2017, il giorno prima della demolizione dell’intera baraccopoli. Non è morta di fatalità Victory, trovata uccisa nei campi vicino Borgo Mezzanone nel foggiano, perché si ribellò ai suoi aguzzini, costretta da questi a prostituirsi. Non sono morti di fatalità Filippo di 20 anni, Roberto di 52 anni e Marco di 54 uccisi a Torino qualche giorno fa, sotto una gru che non ha retto. Così come non sono morti di fatalità oltre mille lavoratori, nel solo 2021.
Sono morti di sfruttamento, di lavoro nero, di mancate norme di sicurezza sul lavoro, di precariato, di mancata applicazione dei diritti sul lavoro, civili, umani. Morti di ingiustizia e di disuguaglianze, di discriminazioni. Morti perché “il profitto primaditutto e soprattutto” giustificato dal peloso alibi che l’economia non può fermarsi. E se anche ogni tanto qualche bambino muore, buttiamola in misericordiosa pietà condita da una spruzzata di indignazione, che dura appena poco più della notizia snocciolata al Tg o di una dichiarazione pubblica all’occasione. Sono morti a causa dello spietato sistema che continua imperterrito ad usare corpi come strumenti di arricchimento e potere.
Ma il sistema non è un’entità astratta, è fatto di uomini con tutto il loro carico di colpe e responsabilità: imprenditori disonesti o collusi, politici quiescenti o compiacenti quando non corresponsabili con le loro politiche discriminatorie e razziste, organizzazioni mafiose che controllano le attività criminali sul territorio. Ognuna di queste in perfetta complementarietà con le altre per il raggiungimento di personali fini: arricchimento e potere, letteralmente sulla pelle di chi non ha difese.
Eclatante e significativo è il recente arresto, sempre nel foggiano, dell’imprenditrice agricola, consorte di un uomo delle istituzioni, accusata di caporalato: l’imprenditrice trattava direttamente con i caporali per l’organizzazione delle squadre di lavoro da mandare nei campi. Sì, il caporalato. Ma il caporalato non è causa di tutto, è solo uno degli anelli dello sfruttamento, neppure quello più importante: il caporalato sussiste quando esiste domanda illegale e offerta ricattabile, con l’avallo di una logica liberista che non fa differenza fra legalità e illegalità, quando conviene anche quest’ultima va bene. Le condizioni di miseria in cui sono costrette migliaia di persone hanno origine ben oltre il caporalato, che ne è solo un cascame, il più appariscente, non l’unico. Le ingiustizie e le disuguaglianze sociali, cavalcate con lucida criminale consapevolezza, sono la conseguenza di una logica darwiniana sempre più evidente.
E non è assolta neanche quella porzione di società civile (predominante) per lo più sonnecchiante, pigra, indifferente che nel migliore dei casi preferisce fare l’elemosina per togliersi di dosso quel senso di colpa appiccicaticcio e sgradevole, di cui non vuole chiedersi la provenienza. Persone che al supermercato comprano al ribasso senza mai sforzarsi di considerare cosa c’è dietro un barattolo di pomodori o che non si chiede cosa c’è dietro la consegna del cibo portato a casa dal delivery di turno. Che ascolta dal divano di casa notizie di miseria e di morti da sfruttamento come di cose distanti dal proprio quotidiano, persa nei preparativi natalizi e nei consumi compulsivi. Consolatori quanto utili a volersi sentire differenti da chi la miseria e mancanza di diritti la vive tutti i santi giorni. Anche a Natale.
“Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre millecento, anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti. (da la “Canzone del maggio” di Fabrizio De Andrè)
Antonio Fortarezza
L’omertà e l’indifferenza che uccidono i bambini
(articolo pubblicato sulla testata online articolo21.org, il 20 dicembre 2021 – qui il link: https://www.articolo21.org/2021/12/lomerta-e-lindifferenza-che-uccidono-i-bambini/ )
(Dijana Pavlovic, portavoce nazionale Movimento Ketane)
“Le campagne pugliesi sono l’ombelico del mondo, attraverso quelle campagne passa buona parte di storia dell’umanità. Ci arrivano quelli cacciati dalle guerre, dai regimi autoritari, dai disastri ambientali provocati dall’azione predatoria delle multinazionali. Migrano dalla povertà, con la disperata determinazione nel volere approdare a un lavoro e una vita appena dignitosa. Migrano quelli a cui è stata bruciata la casa, ai quali è stato impedito di sentirsi essere umano da qualche parte del mondo”. Così mi dice Antonio Fortarezza, documentarista da tempo impegnato a raccontare lo sfruttamento sul lavoro nelle campagne del foggiano e l’illegalità diffusa che permea quel territorio, durante una lunga riflessione comune su come sia possibile che non venga raccontato in tutta la sua drammatica articolazione. Le pochissime voci che cercano di farsi spazio sono sovrastate dal rumore mediatico di un’informazione spesso distratta che non sa o che non vuole guardare oltre il fatto di cronaca, un’informazione che si accontenta di alimentare indignazione a tempo e un tanto al chilo. È invece più che mai indifferibile la necessità di dipanare il contesto sistemico nel quale è accaduta l’atroce morte di Birka e del fratellino Christian, di 4 e 2 anni, nella baraccopoli di Stornara, in provincia di Foggia.
La stampa parla della tragedia nel campo rom, di sfuggita si legge che il papà era al lavoro nelle campagne e la mamma si è allontanata per breve tempo mentre i piccoli dormivano scaldati da una stufa a legna (qualcuno scrive non a norma, come se l’insieme delle cause sociali che hanno costretto quella famiglia, insieme a tante altre, a vivere in una baraccopoli fosse invece normale). “Uccisi da una stufa a legna” dicono. C’è chi dice che ci si deve scandalizzare per come vivevano quei bambini prima dell’incendio, in condizioni disumane, senza servizi primari, in mezzo alla spazzatura, in un campo rom. C’è chi dice che luoghi come quelli – i campi rom – sono la vergogna d’Italia. Vero. Ma quali luoghi? I campi rom con le baracche e la spazzatura o gli interi pezzi del nostro Paese come quello nel quale quel campo è cresciuto a dismisura? Perché non andiamo oltre il campo rom? Perché non manteniamo costantemente alta l’attenzione sul sistema economico che quelle baraccopoli le ha, seppure di riflesso, fatte crescere e dalle quali trae vantaggi e profitti illeciti?
Lo strazio che provo da donna rom, da madre, non può nascondere la vergogna che provo da cittadina di fronte al fatto che nessuno osa dire la verità. Vengono costantemente sminuite o nascoste le dinamiche – politiche, economiche e sociali – cause di fondo per le quali questi drammi accadono da anni. Non è la prima volta che si muore di ingiustizia e di povertà nelle baraccopoli delle campagne foggiane: nel dicembre 2016 in prossimità di Borgo Mezzanone e a poco meno di 20 chilometri da Foggia, un incendio uccise Ivan Miecoganuchev, vent’anni, nel suo alloggio fatiscente dentro l’insediamento abitato da famiglie di origine bulgara. Tanti altri hanno perso la vita, uccisi da sfruttamento, non solo europei, e le colpe originarie sono sempre le stesse.
Quella baracca era un piccolo pezzo del puzzle, un minuscolo pezzettino dell’ingranaggio che mantiene l’economia agricola di quella regione, uguale a molte altre regioni italiane, soprattutto quelle del Sud Italia. Un’economia basata sullo sfruttamento e sulla schiavizzazione della disperazione delle persone. Un sistema perverso nel quale su 3-4 euro all’ora pagati a tanti papà disperati, meno alle mamme disperate e ancor meno ai bambini, poco più grandi di quelli carbonizzati nella baracca, ognuno si prende la sua parte del profitto, a partire da quelli che gli fanno pagare 50 euro a baracca per poterci stare, passando per i caporali, il crimine organizzato straniero con il benestare della mafia locale, arrivando alle aziende agricole. Bulgari, romeni, migranti da ogni parte del mondo, nei ghetti, nelle baracche, nei casolari occupati, diverse migliaia, da diversi anni.
Il sindaco è triste e dice che ha segnalato la situazione. Quale situazione? Quella che esiste un campo rom? Non che non si possa comprendere la sua solitudine e la sua impotenza di fronte all’enormità del fenomeno, ma ora è il momento di dire la sua solitudine, e di dirla tutta. Se non ora quando? E’ un circolo vizioso che bisogna spezzare, consapevoli di quello che ciò significa. Se si combatte lo sfruttamento e il caporalato, si uccide l’economia, dicono. Non è vero e non possiamo permettere che l’economia del nostro Paese si basi sullo sfruttamento e sul crimine. A allora sì, lo Stato italiano e la politica italiana dovrebbero agire ora, spezzare quel circolo vizioso ripulendo quell’economia dai vincoli che la soffocano, a costo di perdere consensi e voti fra chi vorrebbe che le cose rimangano così come è oggi.
Chi tra i politici ha detto o pensa che la morte di questi due bambini è la vergogna italiana, dovrebbe fin da domani agire con una commissione parlamentare per esaminare il fenomeno, con il Ministero dell’Interno e con quello del Lavoro per pensare a un piano urgente per ristabilire la legalità e la dignità umana e quella del lavoro sui territori affetti da questo cancro.
Non vogliamo e non dobbiamo tacere aspettando la prossima morte.
(La foto che illustrano gli articoli sono di Antonio Fortarezza, l’utilizzazione è consentita solo dietro espresso consenso dell’Autore)
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