Che un’opera d’arte torni a splendere, nel pieno della pandemia, mentre i musei sono chiusi, è un autentico segnale di resilienza della Bellezza, un messaggio di luce e di speranza. È successo nella Cattedrale di Foggia, dov’è tornata, restaurata da Daniela Pirro, la preziosa pala d’altare “La Pietà” capolavoro di Paolo De Maio, che l’ha dipinta nel 1741.
Una bella storia, che merita di essere raccontata.
Il passare dei secoli (e un improvvido restauro precedente) avevano offuscato la bellezza di questa meravigliosa e potente opera di impianto classico-barocco.
L’intervento, realizzato dalla restauratrice di San Marco in Lamis, ha restituito all’opera tutto il suo incanto, la sua magia. Potete ammirarlo nel breve filmato alla conclusione del post, da cui si vede com’era l’opera prima, e come si presenta adesso.
Il restauro è avvenuto sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Barletta-Andria-Trani e Foggia, nelle persone del Dottor Antonio Falchi, della Dott. ssa Diana Venturini e della Dott.ssa Elena Arlotti , con il coordinamento dell’Arch. Antonio Ricci, Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici – Arcidiocesi Foggia-Bovino dell’Arcidiocesi di Foggia.
L’operazione è stata interamente finanziato da “Opera Tua” di Coop Alleanza 3.0, il progetto con il quale l’azienda sostiene la valorizzazione dei beni culturali nelle nove regioni italiane in cui è presente in collaborazione con Fondaco Italia, l’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale ed il patrocinio del Touring Club Italiano.
Ubicata nel transetto dell’altare di destra della Cattedrale di Foggia, “La Pietà” ha un’altezza di 3,15 metri e una larghezza di 2,15 metri. Originario di Marcianise (Caserta) Paolo De Maio fu tra i frequentatori più assidui della bottega di Francesco Solimena, pittore barocco dalle eccelse qualità, ma anche celebre e vivace maestro.
L’orma impressa nell’artista De Maio dal suo maestro Solimena si vede nel raffinato equilibrio delle forme, ottenuto attraverso il sapiente utilizzo del chiaroscuro e nella straordinaria maturità con cui De Maio rappresenta i corpi, sul modello della statuaria classica, con invenzioni compositive di pregio altissimo.
Tra gli anni ‘30 e ‘40 del 1700 la sua arte conobbe una virata verso lo stile arcadico, in particolare quello del grande Francesco de Mura. Altra influenza significativa per il pittore marcianisano fu la dottrina gesuita. I dipinti degli anni Quaranta (come La Pietà per la Cattedrale di Foggia ed Il Miracolo di San Vincenzo Ferreri per la Chiesa napoletana di Gesù e Maria) rivelano, infatti, la volontà dell’artista di voler conciliare il purismo del Classicismo arcadico con finalità didascaliche quasi catechistiche, raggiungendo esiti pittorici sempre molto alti.
La Pietà per la Cattedrale di Foggia (1741) sarà l’archetipo di numerose repliche, da quella della SS. Carità a Capua, 1759, a quelle di S. Francesco ad Aversa, di S. Teresa a Chiaia, 1760, e di Pandola, 1769.
“La Pietà” è realizzata su tela centinata montata su telaio in legno con tecnica a olio, di ottima fattura. In basso a sinistra si leggono la firma dell’autore, Paolo De Majo, e la data di esecuzione, 1741, tornati visibili dopo il restauro.
L’impianto compositivo ripete lo schema iconografico del compianto della Madonna sul Cristo morto.
Cristo, al centro, è esanime e si staglia contro i panneggi di tessuti su cui il Santo corpo ricade. Viene pianto dalla madre e dall’apostolo Giovanni, come da tipica e antica iconografia. Al di sopra, si levano nembi che ospitano 5 teste ricciute di putto e due angioletti, componendo così uno schema sinusoidale, tipicamente barocco. Sullo sfondo campeggia un paesaggio desolato e spoglio.
In basso a destra, il cartiglio I.N.R.I, la corona di spine e gli attrezzi della crocifissione completano l’iconografia della Pietas cristiana.
Il corpo di Cristo è morbidamente adagiato sulla pietra anziché sulle ginocchia della madre, un braccio del Cristo ricade all’indietro e il resto del corpo poggia su un bianco lenzuolo. Sia questo sia il perizoma, simboli della sua missione di purificazione, formano ricche pieghe che creano un movimento a drappeggio. Giovanni, efebico e bellissimo, bacia una mano del Maestro e si prostra in commossa venerazione. La resa dell’insieme è molto realistica e scenografica, tipica dello stile barocco dell’autore, con particolare cura e ricchezza anche nei dettagli: le rocce con la vegetazione, i puttini e gli angeli, l’albero dalle fronde al vento, il paese lungo la linea del piano dell’orizzonte, i drappeggi delle stoffe. La Vergine si sostituisce alla croce, divenendo insieme simbolo della crocifissione e Madre crocifissa essa stessa.
I colori primari sono utilizzati con sapienza e richiamo simbolico: il blu del manto della Madre richiama la trascendenza e l’ineffabilità divina, il giallo dell’abito di Giovanni si fa simbolo dell’unione dell’anima a Dio, il rosso del drappo su cui è posto il Cristo riconduce al sacrificio, ma anche al valore purificatore del fuoco, all’amore del Verbo rivelato; il bianco del sacro lino, infine, cita implicitamente il passo evangelico “Io sono la luce del mondo, chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12)
La tavolozza, dunque, si compone di bianco di piombo e terre per gli incarnati, di cinabro per i rossi, di azzurrite per gli azzurri, in alcuni casi miscelati con lacca per i toni violacei molto scuri, sintomo di una raffinatezza e attenzione alla resa cromatica del tutto peculiare dell’artista.
Grazie al restauro operato dalla bravissima Daniela Pirro, è stato restituito alla comunità un bene di straordinaria bellezza che, finalmente, può essere fruito nella sua interezza e nella sua unità potenziale, grazie anche alle accorte reintegrazioni estetiche a tratteggio.
L’intervento non è stato facile, anche perché l’opera era stata sottoposta, nella prima metà del Novecento, a interventi di restauro a dir poco approssimativi, che ne avevano accentuato lo stato di degrado. Per fare qualche esempio, erano state effettuate stuccature e un’ingente patinatura bituminosa che occultava la pietra e la soglia del sepolcro. Nel corso dello stesso intervento, l’opera aveva subito la sostituzione del telaio e della cornice originali. Erano inoltre stati inchiodati ben 87 chiodi perimetrali lungo tutto il fronte del dipinto, danneggiando la pellicola pittorica, non solo in corrispondenza dei chiodi stessi, ma anche in diverse aree soggette a tensionamento errato. Ciò aveva inevitabilmente provocato il distacco dei diversi strati pittorici,
Il restauro operato da Daniela Pirro ha corretto sia i problemi legati al passare del tempo, sia quelli provocati dalla scarsa qualità del precedente restauro. Nelle diverse e laboriose fasi, sono stati tra l’altro, suturati i tagli e le lacune del supporto, mediante ricostruzioni filo a filo o tarsia tessile a innesto, sono state rimosse le precedenti stuccature, è stato costruito un nuovo telaio di legno, è stata realizzata una nuova cornice, sono state reintegrate esteticamente le lacune a tono, a velatura e a tratteggio, queste ultime quando assolutamente necessarie, reversibili e facilmente riconoscibili.
Il risultato è veramente spettacolare, e restituisce alla Chiesa foggiana e alla Città un capolavoro che il tempo minacciava di compromettere.
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