La parola «distanza» non mi è mai particolarmente piaciuta.
Se vedo un fiume, devo cercare un ponte per attraversarlo.
Così, quando ho sentito parlare le prime volte di «distanziamento sociale», ho pensato che avrei preferito usare «distanziamento fisico»; ma anche queste parole, in fondo, non mi appartengono.
L’idea che, anche adesso mentre scrivo, un teatro o un cinema possano essere chiusi nel loro silenzio e con loro altri luoghi e attività, mi fa male.
La nostra vita sociale è cambiata e non sappiamo ancora questo cambiamento dove ci porterà.
Uno dei momenti più attesi dell’anno è alle porte.
Lo sanno bene i bambini, che trepidanti hanno scritto la loro lettera a Babbo Natale.
Per noi adulti, l’attesa di questo Natale è invece pervasa da uno stato di smarrimento; giorno dopo giorno, questa sensazione si rigenera di fronte alle vite che, senza nemmeno una carezza, questa catastrofe sta seppellendo, tra l’immensa sofferenza dei loro familiari.
È come se fossimo tutti con il fiato sospeso, tutti con la gioia sbarrata nel cuore.
Ci guardiamo con sospetto da una parte all’altra della strada, non possiamo più stringerci le mani o scambiarci un abbraccio, niente baci sulle guance, ci divide una lunga lista di precauzioni, di gel e di paure.
Il virus si è preso anche quel poco di umanità fisica che ci era rimasta, e ogni giorno che passa s’insinua tra le nostre vite, quelle dei nostri cari e degli amici.
Siamo stanchi adesso.
Eppure, tra le mura secolari dei paesi, si sussurrano racconti che ci ricordano che tutto non è perduto; un annuncio che anche le campane antiche delle chiese, proclameranno la notte di Natale.
Le pietre come testimoni, raccontano di altre epidemie, guerre, povertà che hanno sconvolto nel tempo generazioni di persone.
Gli anziani, patriarchi della nostra esistenza, spessore della nostra vita, sono l’ancora della salvezza, lo spiraglio della luce, il mare calmo.
Una nonna del paese di Vico mi raccontò di un’annata particolarmente povera per la raccolta degli agrumi, a causa di una grande gelata. Quell’anno la sua dispensa era vuota e le feste natalizie ormai alle porte; perfino un albero di Natale era impossibile da addobbare.
Cosa fare, cosa non fare, pensava, per portare un po’ d’allegria ai suoi bambini.
Così, avvoltasi nello scialle, se ne andò per la campagna a raccogliere una manciata di castagne, di noci, qualche melagrana e arance sopravvissute. Tornata a casa lavorò i frutti con ago e filo facendone addobbi da appendere, per adornare l’albero e far contenti i suoi bimbi.
In questi giorni penso a questa vicenda, che non è una favola e non è nemmeno datata.
Attingo anche da essa, per ripetermi che questo deve essere il tempo dell’essenza, del significato autentico delle cose, dell’anima.
Prendere tutto quello che abbiamo intorno e farne tesoro; raccogliere tutte le forze rimaste e prendersene cura, conservarle.
« (…) era adesso o mai più. Se si arrendeva, non sarebbe stato solo per quel giorno, ma per sempre», scrive un narratore islandese in un suo celebre romanzo, che mi piace rileggere in questo periodo, mentre sulle sue pagine si riflettono le luci intermittenti del presepio.
Tra le “mani” abbiamo tutto quello che molti non hanno più e che si chiama “vita”. E noi adesso, anche senza abbracci, anche se distanti, o lontani dalle nostre tradizioni, dobbiamo custodirla con la massima attenzione, nel rispetto di chi se n’è andato, oltre che della vita stessa.
Non diamoci per vinti, solchiamo le tracce migliori della nostra esistenza, perché saranno quelle su cui cammineranno altre donne e uomini del piccolo e meraviglioso fazzoletto di terra che abitiamo, che ogni giorno si riflette nei miei e nei vostri pensieri.
Coraggio, buon Natale.
Francesco A.P.Saggese
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Le foto sono di Pasquale D’Apolito (28MM Studio)
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