Come conciliare la pratica del digiuno religioso, che prescrive di non consumare altro che pane ed acqua, con lo spirito della festa, che postula invece prelibatezze in tavola?
La cultura contadina e bracciantile pugliese ha dato a questo dilemma una risposta geniale: le pettole. Gli ingredienti più poveri per antonomasia – la pasta di pane e l’ acqua – vengono utilizzati per confezionare il cibo del “digiuno” ma sapientemente insaporito e reso gustoso dalla ingegnosa tecnica di preparazione e di cottura.
La pratica del digiuno, da osservare prima di certe feste, come l’Immacolata e la vigilia di Natale, è nata proprio in Puglia, in quel di Manduria, nel 1628, e successivamente recepita e ratificata dalle gerarchie ecclesiastiche con una bolla di papa Pio IX, nel 1853.
Oggi si pensa che mangiare soltanto le pettole all’ora di pranzo, il giorno della vigilia di Natale abbia lo scopo di “mantenersi leggeri” in vista dell’abbuffata serale. Ma non è così: l’usanza ha radici remote: faceva parte, appunto, della pratica del digiuno che imponeva ai penitenti di mangiare a pranzo soltanto pane ed acqua. Fino a quando a qualcuno non venne l’idea di aggiungervi un tocco di sapore.
Sull’origine delle pettole c’è anche una graziosa leggenda, anche questa pugliese, che ne lega la nascita alle festività di Natale. La storia racconta di una donna di Taranto che, il giorno di Santa Cecilia, il 22 novembre, mentre preparava l’impasto del pane fu distratta dalla musica ammaliante dei zampognari che erano giunti in città. Affascinata dalla melodia, si mise a seguirli per le stradine del centro storico della città ionica, dimenticandosi di aver messo il pane a lievitare. Quando se ne ricordò era ormai troppo tardi: la pasta era cresciuta troppo. Per non gettarla via, pensò di fare un esperimento: mise l’olio sul fuoco, e formate delle palline con la pasta del pane, li fece friggere. Una volte dorate, le fece asciugare e le offrì ai suoi figli e agli zampognari, che ne restarono estasiati e chiesero alla donna come si chiamasse quel piatto, così saporito. “Pittele”, risposte (in dialetto tarantino la pizza viene chiamata pitta, quindi pittele sta più o meno per pizzette).
Ormai le pettole si mangiano tutto l’anno, servite in bar e ristoranti anche come snack che accompagna l’aperitivo o apre il pranzo. Ma, come certificato dalle storie che vi ho raccontato, l’origine di questa saporitissima pietanza è del tutto natalizia, e scandisce un po’ tutto il periodo delle feste che salutano la nascita di Gesù.
La tradizione vuole che si cominci a prepararle dall’8 dicembre, festa della Immacolata Concezione, e quindi ripetute come… antidoto al digiuno il giorno della vigilia di Natale e a San Silvestro, ultimo giorno dell’anno.
La ricetta base è più o meno quella inventata dalla distratta massaia tarantina. Le varianti sono decine.
Si prepara un impasto di farina, acqua, sale, lievito di birra (un panetto da 25g per 500 grammi di farina). Il trucco è di mantenere l’impasto molto morbido e scivoloso, quasi come fosse una pastella. Si mette a lievitare il tutto, coperto da un panno. Dovrebbero bastare un paio d’ore. L’impasto è pronto quando sulla superficie compaiono piccole bolle d’aria.
Le varianti più diffuse, per quanto riguarda l’impasto, prevedono l’uso di acqua frizzante anziché liscia (contribuisce a rendere ancora più leggera la pastella) o di aggiungere durante la lavorazione qualche cucchiaio di olio di oliva o ancora una patata lessa.
L’obiettivo è sempre quello di mantenere l’impasto leggero: dev’essere una nuvola di pane.
Una volta che l’impasto è lievitato al punto giusto, mettere a scaldare l’olio di oliva in una pentola abbastanza capace e formare delle palline di pasta. La pasta tenderà ad allungarsi: ci si può aiutare con due cucchiai.
L’olio dev’essere abbondante, se è il caso si possono rivoltare, fino a quando non diventano dorate.
Veniamo adesso alla varianti. Tra le ragioni per cui le pettole vengono universalmente apprezzate, c’è proprio la loro versatilità: si prestano a tante, ma proprie tante aggiunte. Mia madre aggiungeva all’impasto qualche acciuga salata e sminuzzata. Qualcuno lo fa con filetti di baccalà lessato.
A Foggia si usa anche condirle con sugo di pomodoro fresco e una spolverata di pecorino grattugiato: in questo caso la forma non deve essere però quella di una pallina, ma piuttosto di una pizzetta, circolare, in grado di accogliere il condimento. In questa caso, vengono chiamate anche pizze fritte.
L’altra variante molto diffusa è quella dolce. Una volta fritte, le palline di pasta vengono passate semplicemente nello zucchero, oppure cosparse di vin cotto.
L’ultimo suggerimento riguarda il consumo: bisogna mangiarle ancora calde, se non bollenti. Fredde le pettole non sono la stessa cosa.
Geppe Inserra
Views: 0