Leggere gli articoli dell’ormai “decano” dei giornalisti foggiani, Marco Laratro, mi procura un sincero piacere ed un’emozione profonda, per la sua capacità di approfondire e sviscerare gli argomenti, come si conviene ai giornalisti di razza. È il caso di questo splendido articolo, comparso (con il titolo “I ferlìzze dei portoghesi foggiani”) sull’ultimo numero de “Il murialdino“, testata che si segnala, oltre che per la sua qualità, per essere ormai uno degli ultimi periodici stampati che vengano pubblicati a Foggia. Laratro racconta con dovizie di particolari un oggetto ormai scomparso nell’uso comune, ma che una volta faceva parte della vita quotidiana della comunità dei terrazzano: “u ferlìzze“. L’autore dell’articolo azzarda anche una intrigante ipotesi sull’etimologia del termine dialettale. Non vi anticipo altro perché ci tengo che gustiate dalla prima all’ultima parola la deliziosa scrittura di Laratro. Una precisazione: nell’articolo vengo citato per aver definito “u ferlìzze” un simbolo di classe. L’ho fatto nella lettera meridiana in cui recensivo l’omonimo album realizzato dal cantautore foggiano, Gianni Pellegrini, in collaborazione con Raffaele De Seneen (se vi va di leggerlo, lo trovate qui). Ringrazio Michele Paglia, sempre solerte nel segnalarmi gli articoli di Laratro, l’autore per consentirne la pubblicazione e la redazione de Il Murialdino per la sua meritoria attività editoriale e pubblicistica (geppe inserra).
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Chi sa, chi ricorda che cos’è un “ferlìzze” ? Nel vocabolario dialettale della nostra fanciullezza, l’intreccio di mute vocali con una sillaba inasprita da tante “zeta” già poteva evocare echi sommessi di fruscìi di canne, coraggiosamente erette controvento per le distese piatte del Tavoliere. Quella ruvida dissonanza fonetica si è poi materializzata in un oggetto, a dir poco, sorprendente. Sì, perché infine il misterioso “ferlìzze” altro non è che un umile, piccolo, antico sgabello. La prima “rivelazione” mi è venuta, tanto tempo fa, dall’indimenticato Fernando Faleo, che proprio al “ferlìzze” aveva dedicato non solo la memoria poetica di una delle sue nostalgiche composizioni in vernacolo, ma anche una meticolosa, paziente opera di ricostruzione: prima con una personale ricerca di frasche e virgulti lungo canali e tratturi delle nostre campagne, e quindi con un lavoro casalingo di assemblaggio ed intreccio, per ridar forma e vita, infine, a qualche fedele esemplare di quell’arnese di modeste dimensioni ma di pratica maneggevolezza e impensata solidità. Una copia di quello sgabello dovrebbe trovarsi tuttora nel patrimonio di ‘tradizioni popolari’ dell’Università del Crocese, dove il nostro Faleo – dopo aver onorato la passione per la natura con solida competenza professionale, sino a rivestire alte cariche e responsabilità in àmbito agro-forestale provinciale e regionale – era divenuto uno dei docenti più amati e stimati. Vivo, tuttora, il ricordo del genuino trasporto con cui, non solo nelle lezioni ma anche nella prosa di studi, articoli e relazioni, e nel vernacolo di tante poesie, aveva dato nuovi impulsi di entusiasmo e d’orgoglio alla coscienza delle tradizioni foggiane, e al civile dovere non di custodirle in una teca di impolverata affettuosa memoria ma di ravvivarle con linfe comunicative di interesse e continuità. Così adesso, in tutta umiltà ma con la sorridente sfrontatezza di uno “scugnizzo dell’arredamento”, anche il piccolo “ferlìzze” può farsi avanti, dalle profondità di almeno un secolo, per recuperare qualche più giusto spazio di considerazione e ricordo.
Pur se basso e un po’ tozzo, infatti, questo rustico panchetto ha compensato con la solida coesione dell’intreccio l’apparente fragilità della materia di canne di cui era fatto: e con una pratica adattabilità ai mutamenti di usi e di ambienti, può costituire un esempio ideale di comportamento per la vita anche politica dei nostri giorni, riecheggiando comunque autonomamente quello spirito di orgogliosa indipendenza da padroni e convenzionalità, che era il distintivo dei “terrazzàni” di una volta, e che -addolcito da una vena sottile d’ironia – resta esemplare nel carattere dei foggiani veraci di ogni tempo.
A “simbolo di classe” lo ha elevato Geppe Inserra con un riconoscimento di lapidaria concisione, corroborato da un convinto attestato di fede popolare evocato ancora dal nostro Faleo: “Si’ forte cume ‘nu ferlìzze!”. Né vale a sminuire pregi e benemerenze la sorridente irriverenza che esala dalla filosofia poetica di un verseggiatore nostrano: “Qui, sui troni del mondo, / ognuno ha il suo potere: / ché ognuno siede, in fondo, / sopra al proprio sedere…”. Ma è nella musica che il rustico panchettino crocese sembra aver trovato un motivo insperato di riscatto, di rivalutazione anche artisticamente celebrativa che lo fa risuonare fin nella distratta memoria dei nostri giorni. A lui è dedicata infatti una delle più suggestive composizioni del bravo cantautore foggiano Gianni Pellegrini, affiancato nell’occasione dall’estro di Raffaele De Seneen. Eppure, basta un verso – un verso-cardine – per tornare ad affacciare i dubbi di un dilemma di corrosiva sottigliezza, sospeso tra esaltazione e sconforto, orgoglio e rassegnazione: “Sìme ferlìzze e l’àte so’ segge”. Esser “ferlizzi”, insomma, è proprio un vanto, capace di ricacciare indietro, persino con un filo di disprezzo, l’avanzata boriosa delle ‘sègge’? O non rappresenta, piuttosto, una nuova ammissione di sconsolata inferiorità nel confronto con la rigonfia ‘aristaticità’ di sedie e poltrone damascate? Ma forse il dilemma – enfatizzato sino ad assumere impensati risvolti politico-sociali – infine non esiste neppure. Perché l’origine di questa eterna surreale vertenza è anch’essa in un grido, peraltro di più diffusa, quasi storica, risonanza popolare: “T sègge an-nànz, e ‘i ferlìzze arréte!”.
Anche in quel caso, nella teatrale perentorietà di un’intimazione di chiara intonazione “crocese” ancor oggi più d’uno si è ostinato a percepire odiosi echi di discriminazione sociale, e addirittura messaggi di prepotente emarginazione.
Niente tragedie, invece. Tutt’al più, il sorriso di una commediola umana sullo scenario d’un teatrino di piazza. E al centro, stavolta, non qualche burattino ma un comune sgabello impagliato, di proletaria natura e artigianale fattura: ‘“u ferlìzze”, appunto. A lanciarlo, quel grido-sentenza, non è stato, peraltro, un principe del foro o del castello, un filosofo o un uomo di cultura, ma un semplice “pupàro”: un sanguigno burattinaio foggiano che vociando nelle più varie tonalità dava movimento e favella a marionette e burattini dell’“Opera d”i strazzùll”.
Proviamo a immaginare, sia pure approssimativamente, la scena. Un largo, una piazzetta nel centro di Foggia, verso la fine dell’‘800. In fondo, su un palchetto di legno, il richiamo colorato dell’arco di un teatrino. Tutto pronto, in attesa dello spettacolo, che promette, a sorpresa alternata, un paio di generi di rappresentazioni: o i queruli, un po’ nasali, alterchi tra Pulcinella, Arlecchino e Colombina, o i luccicanti stridori d’alluminio di scudi e spadoni di eroi come Orlando e Rinaldo, incrociati in eterni cavallereschi duelli. Variano solo le armi: quelle, familiarmente casalinghe, di battipanni, matterelli e bastoni, calati su infrangibili crani di legno con allegria tipicamente napoletana, e quelle delle spade di stagnola agitate in minacciosi mulinelli, che il pupàro accompagna con uno sgangherato eppure impavido grido di sfida: “Sciàbbola avéto vojo, e sciàbbola avéto ìje!”. ‘Anima’ e voce di tutto, naturalmente, il “burattinaio-factotum”, affannosamente impegnato nelle più disparate mansioni: di capo e inserviente, scenografo e attrezzista, facchino, regista, voce recitante, e, prima di tutto, bigliettaio. In questa veste il brav’uomo ha allineato speranzoso, davanti al palco, un po’ di seggiole: che nella loro zoppicante e un po’ spagliata comodità offrono anche una parvenza di distinzione ai “segnùre”, ai ‘signori’ che vanno ad accomodarvisi pagando qualche moneta. Tutto in ordine, allora? Non proprio. Perché in ogni ambiente spunta immancabilmente qualcuno che quatto quatto – con para-innocente candore, o furberia – cerca di farsi avanti senza pagare. In questo caso i “portoghesi ante litteram” sono dei “terrazzàni”. Vestiti a festa anche loro, mentre lo spettacolo ormai sta per cominciare si presentano in allegre frotte familiari e, come in un gioco di prestigio, tirano fuori i portatili “ferlìzze” per sedersi accanto – e spesso anche avanti – alle ‘sègge’ di signorili pretese. Comprensibile il disappunto del pupàro; puntualmente decisa la sua reazione, con un’intimazione perentoria: “ ‘i sègge annànz, ‘i ferlìzze arréte!”. Era, il suo, un gesto di legittima autotutela dell’onesto sudato compenso: ma nel tempo e nel costume sembra essersi deformato sino ad assumere un senso di odiosa prepotenza; il carattere di un discriminatorio respingimento: precedenza alle sedie (quelle, appunto, di spettatori paganti), e via, indietro, i terrazzàni che vorrebbero godersi gratis lo spettacolo ponendo in prima fila i loro panchetti di canne e virgulti. Anche per i soggetti più vilipesi e dimessi, comunque, le vie del riscatto possono aprirsi talvolta nel modo più impensato.
Chi avrebbe mai immaginato, ad esempio, che il rustico misconosciuto “ferlizze” crocese, dopo essere stato relegato – a torto o a ragione – nelle retrovie, potesse invece vantare la nobiltà di una discendenza nientemeno ’latina’? Una modestissima ipotesi di conferma etimologica potrebbe venire, con altrettanto artigianale semplicità deduttiva, da un vecchio vocabolario della lingua di Orazio e Cicerone. Lì, ecco il sostantivo “fèrula” – l’umile, comune canna di campi e canali – che diventa materia-madre del nostro piccolo sgabello e gli trasmette quel prefisso-radice “fer” poi fedelmente trasferito nella versione in vernacolo: “ferlizze”.
Questa è, beninteso, solo una fùgace deduzione, in attesa magari di ben più fondati supporti di approfondimento se qualche glottologo li riterrà meritevoli d’un cenno di attenzione. Ma le sorprese non finiscono qui: perché – se è vero che ogni medaglia ha il suo rovescio – anche una colta traduzione latina può celare l’insidia di significati contrastanti e non sempre edificanti. Così, l’antica “fèrula” dei Romani. Mentre si presentava certamente di grande utilità e conforto allorché era intesa e impiegata come bastone di appoggio, o materia di copertura e intreccio, o benefica stecca di sostegno sanitario, poteva anche assumere una funzione violenta, persino odiosa, quando – in una interpretazione alternativa – veniva descritta come strumento di punizione o correzione, nelle mani severe di maestri e educatori; o come bacchetta dolorosa per umilianti pene corporali su schiavi, carcerati, militari ed anche bambini… Chiaramente, un uso così barbaro e aggressivo non può che contrastare in maniera stridente con la natura di accomodante accoglienza del popolano sgabello foggiano.
Nuovo dilemma, dunque, per lui: pur se, stavolta, di divertito e un po’ surreale carattere culturale: come accettare l’onore di una “discendenza classica” illustre e nobilitante, ma gravata dal peso delle pratiche di violenza dell’avita “ferula” latina? Con le canne e le frasche agitate per la prima volta da inattesi fremiti d’imbarazzo, il piccolo ‘ferlìzze’ ha compiuto infine la sua scelta: e, seguendo il richiamo del vecchio ‘pupàro’, in amareggiato silenzio se n’è tomato“arréte”. Indietro sì, ma solo nel tempo (e con, sempre integro, un nome di umile onesta presenza nella tradizione di umanità e memoria della vecchia Foggia). Perché un “passo indietro” non significa fuga o rinuncia quando lo muove un soffio di orgoglio e dignità.
Marco Laratro
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Leggo fedelmente Lettere Meridiane. Mi portano indietro nel tempo, spesso, e mi permettono di abolire l’enorme distanza che mi separa dalla mia citta’ natale, e l’ampia e generosa cultura familiare dei miei genitori, zii/zie, nonni/e in cui dialetto, latino, e perfetta lingua nazionale si intrecciavano, un po’ come il ferlizze, e si reggevano ed interpretavano a vicenda. Io purtroppo il dialetto foggiano non lo capisco. Faccio parte di una generazione, o di una famiglia, per cui il dialetto era off limits. Ma ne ricordo i suoni, spesso gutturali, gli accenti che tagliavano le sillabe finali del suo lessico, e ricordo alcune parole che fanno parte della nostra tradizione culturale.
Bellissimo questo articolo. Poesia in prosa di profonda intellettualita’.
Commovente per me, perche’ mi riporta alle storie che mio padre ci trasmetteva. Da ragazzino, a quanto ci diceva, era assiduo spettatore dell’opera degli strazzulli. E, se vero o frutto di un suo ricamo fantasioso, soleva tornare a casa con almeno una scarpa in meno, invettiva concreta lanciata ai cattivi dell’ opera. Rivedo la luce dei suoi occhi sotto i cespugli delle sue sopracciglia, ed il suo meraviglioso sorriso. Dottore Ingegnere (titoli di cui era fiero, e c’e’ d’aggiungere Professore) Vincenzo Rizzi.
Ed ora e’ di nuovo d’avanti a me, nei miei occhi, nel mio cuore.
Grazie!!!
Il suo commento è prezioso, e mi ha veramente emozionato. Una bel riconoscimento per il nostro lavoro. Grazie.