Il 19 agosto del 1943, Foggia fu teatro e bersaglio di uno dei più sanguinosi raid aerei di quella tragica estate. Comunemente, la ricorrenza dei bombardamenti di Foggia viene associata alla data del 22 luglio. Testimoni oculari asseriscono che le incursioni del 19 agosto furono perfino più truci e sanguinose. In un caso e nell’altro, furono migliaia le vittime sia civili che militari, che le bombe alleate lasciarono in una città ormai ridotta soltanto ad un cumulo di macerie.
Per gli storici è difficile raccontare l’orrore, che è purtroppo una costante della storia dell’umanità, soprattutto quando si parla di guerra.
Riescono meglio la letteratura, la poesia.
Ho trovato questa poesia, intensa e struggente, nelle colonne di un numero di ottobre 1956, de Il Corriere di Foggia. Ne è autrice Giulia Di Leo Catalano, insegnante, direttrice ed ispettrice scolastica, raffinata intellettuale e donne di lettere (madre, tra l’altro, del regista scrittore Fernando Di Leo) che nel 1943 aveva soltanto 38 anni, e doveva da poco essersi trasferita a Foggia.
La poesia racconta e conferisce memoria e spessore universale ad uno dei tanti episodi di morte scritti dai bombardamenti: l’uccisione di una maestrina, che Catalano con ogni probabilità conosceva personalmente.
La vittima resta senza nome, ma i versi di Giulia Catalano, sottraggono all’oblio e restituiscono grandezza e dignità al suo sacrificio.
Con questo versi vogliamo ricordare quella infausta giornata. Per non dimenticare i nostri morti. Per ricordare il prezzo elevatissimo che la nostra terra e la nostra gente hanno pagato per la causa della libertà e della democrazia.
DICIANNOVE D’AGOSTO
Diciannove d’agosto,
scritto con il sangue
nella nostra storia…
Terso era il cielo e puro
nella gloria del sole
che spacca il melograno
e inturgida la spiga
irraggiando superbo…
E il cielo s’oscurò ch’era mattino…
Nubi apocalittiche
di fumo denso e scuro
e bagliori di fiamma
dagli scoppi sprizzanti
degli ordigni di morte…
e la città sommersa
nella furia dei crolli spaventosi…
…Urli e gemiti, pianti
sommessi come preci
imprecazioni orrende di bestemmia…
Eppur, greve nell’aria,
l’infinito silenzio del terrore!
Tu abitavi in casa disadorna
nell’umile quartiere
della povera gente,
casetta bassa e linda
d’amore tepido nido
che ti vide fanciulla
festosa ai giochi e agli studi intenta.
Di là ogni dì partivi per recarti
alla scoletta bella di campagna,
coi muri intonacati
e le finestre verdi,
incorniciati idillii
canori dell’azzurro…
E allo sciame dei bimbi
con te pensosi e chini
sull’enorme mister dell’alfabeto,
insegnavi convinta
la legge deell’amore:
“Fratelli siamo tutti nel Signore”
“Siam fratelli”… L’inutile menzogna!
Venne dall’alto il seme di Caino,
offuscò cielo e sole
e percosse le case
della povera gente.
…Lo schianto ti travolse;
nell’orribil fragore
la bocca ti si empì di terra amara
e gli occhi furon ciechi…
(oh i luminosi occhi bruni
tutta dolcezza e incanto!)
…E fu buio, rovina, perdizione
per un’eternità…
Poi ad un tratto un urlo,
urlo inumano di ferita belva,
“Figli! Figli!” ti giunse
in quel perduto buio
ti ridonò conoscenza!
Tornava la madre
folle d’angoscia al nido
e divelto e schiantato lo trovava…
Con le convulse mani
aggrapparti tentasti alle macerie,
per correrle incontro,
per placare la follia
di quell’urlo che saliva
dalle strazianti radici
del suo grembo materno…
Ma ecco di nuovo il rombo,
il rombo maledetto
e l’orribile fragore
e per l’ultima volta
spezzato nella strozza
il grido “Figli! Figli!”
E poi il silenzio…
L’infinito silenzio del terrore!
…Sui miserandi resti
della terra fumante
folle il sole d’agosto
dardeggiò sanguigna luce!
GIULIA DI LEO CATALANO
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