Porta a tavola la tradizione: i cardoncelli con l’agnello di Pasqua

Ci sono piatti che si possono preparare solo in un posto, e non in altri. Perché, alla faccia della globalizzazione, solo in quel posto si può trovare un certo tipo di ingredienti, la sensibilità, il terroir necessario. Must del giorno di Pasqua a Foggia, i cardoncelli con uova ed agnello sono una tradizione diffusa in tutta la Puglia. Sono un trionfo di quelle erbe e verdure selvatiche largamente utilizzate nella gastronomia pugliese, e non senza ragione. Questo piatto è la più esemplare conferma dello stretto rapporto che esiste tra la cucina e la storia di un territorio. Fino a qualche secolo fa, ampie zone della Puglia (in particolare il Tavoliere) non erano coltivate, vuoi perché destinate al pascolo, vuoi perché impervie, e costituivano pertanto una riserva naturale per i cercatori di erbe spontanee.
A Foggia, c’era chi faceva di quest’attività un lavoro vero e proprio: i terrazzani, che vivevano in  uno dei più antichi quartieri della città, Borgo Croci, ed erano maestri nella raccolta e nella preparazione di tutto quanto di spontaneo e commestibile offrisse la terra. Usavano cibarsi anche di prodotti di difficile commercializzazione, come i “cardoni”, parenti stretti dei cardoncelli, ormai quasi irreperibili al mercato, e simbolo di una cultura culinaria arcaica.
Quando ero ragazzo, i “cardoni” venivano venduti per strada, e ricordo la voce stentorea dell’ambulante che li pubblicizzava urlando: “Cardun attannut“, a sottolinearne la freschezza, la fragranza, e la spinosità.
Era verosimilmente un terrazzano, immortalato da Nicola Laratro nella poesia “U cafon” (che potete leggere integralmente cliccando qui): ” Attannut’i cardun, attannut! ” / n’drunav co na voc cavernos / metten a man fra a recch e a mascell. / Da vit n’canuscev proprio nent, / ca foss fest o iurn d ripos / pe stu cafon er semp a stessa cos, / durmev n’da na stall / che vacche e chi cavall / quann passav a gent si scustav.
A casa non si compravano: li avrei assaggiati ed apprezzati soltanto qualche anno dopo, quando ho avuto la fortuna e il piacere di far parte della grande e bella famiglia della Pugilistica Taralli.
Il pugilato foggiano ha un buon radicamento negli ambienti dei terrazzani ed affini. Diciamo pure che Borgo Croci, così come il Rione Candelaro o il Cep, hanno sfornato tantissimi pugili, facendo grande la boxe foggiana. Così era usanza, almeno una volta l’anno, riunirsi in palestra per celebrare il rito dei “cardoni”.
Al mattino della sera convenuta per il convivio, gli specialisti nella raccolta uscivano alla ricerca delle piante, e se ne tornavano con sacchi e sacchi pieni di questa erba dal sapore fresco e insospettabilmente morbido.
Ci riunivamo attorno ai grandi tavoli solitamente destinati ai commissari di gara, e ogni commensale si puliva da solo i suoi cardoni, armato di coltello, privandoli delle spine e pelando la parte più esterna e filamentosa. Li mangiavano crudi, accompagnati da un po’ di pane e da un immancabile bicchiere di vino rosso,  conditi al massimo con un filo d’olio, sale e  pepe.
Una delizia che s’intrecciava con ricordi e racconti dei tempi di una volta…  delle avventurose trasferte, delle tante vittorie. Che nostalgia…
Nelle campagne pugliesi è possibile trovare praticamente tutte le varietà dei cardi, riconoscibili l’una dall’altra par il colore dei fiori e per l’aspetto: il cardone di cui vi ho detto altro non è che il cardo selvatico (Cynara cardunculus L.), che si caratterizza per la sua imponenza, cresce per lo più il luoghi pietrosi ed ai margini delle strade: i fiori hanno un vivace colore violaceo. Di colore più tendente al rosso sono invece i fiori del cardo mariano (Silybum marianum L.) che possiede anche virtù medicamentose. Ma il tipo di cardo che maggiormente incontra il favore e il gusto dei consumatori è il cardo scolino (Scolymus hispanicus L.), più noto come cardoncello, riconoscibile per il fiore che presenta un vivace colorito giallastro. Il fungo omonimo si chiama così proprio perché cresce nei pressi di questa famiglia di cardi, che predilige pascoli e radure.
I consumatori stanno per fortuna tornando ad apprezzare questi sapori ancestrali. Quest’anno la vendita al dettaglio è stata frenata dall’emergenza del coronavirus e dalla forzata quarantena. Ma soprattutto negli ultimi anni, a Foggia, durante le settimane della quaresima spuntavano decine di punti vendita di questa saporitissima verdura.
È d’uso venderli già spinati (con una quotazione non bassa, attorno ai 5 euro al chilo), ma comunque una volta acquistati e necessario raffinare la pulizia, tagliando il moncone della radice ed eliminando i filamenti più duri.
L’uso di preparali per il pranzo di Pasqua assieme alla carne di agnello e alle uova è diffuso in tutta la Puglia.

Luigi Sada, che è tra i maggiori esperti di tradizione culinaria pugliese, attribuisce questo piatto tipicamente pasquale alla tradizione pagana. Come che sia, il sapore è impagabile, prezioso, insolito.
Gli ingredienti (per 6 persone) sono, oltre ai già detti cardoncelli (1,5 kg puliti) e alla carne di agnello (1/2 kg, disossata), 5 uova, vino bianco, aglio (2 spicchi), olio di oliva, pecorino grattugiato, sale e pepe.
Si comincia dalla cottura della carne, mettendo l’aglio a rosolare in otto cucchiai d’olio extravergine di oliva. Quando è ben caldo si unisce l’agnello, tagliato a pezzi di media misura, il sale, il pepe. Spruzzare con il vino e portare a cottura, bagnando di tanto in tanto, quando il fondo tende ad asciugarsi con acqua ed altro vino. È importante che alla fine della cottura la carne risulti sufficientemente brodosa.
Nel frattempo, si saranno fatti lessare al dente i cardoncelli. Quando sono pronti, vanno posti in un tegame sufficientemente capace, bagnati con il ragù della carne d’agnello, e conditi con un’abbondante spolverata di formaggio pecorino e un po’ di pepe. Porre sopra i pezzi di agnello e rimettere sul fuoco per qualche minuto unendo le uova (che si saranno in precedenza sbattute con altro pecorino e prezzemolo tritato).

Il piatto è pronto quando le uova cominciano a rapprendersi. Una variante prevede l’uso del pomodoro, non tanto però: 200 grammi andranno bene, spezzati grossolanamente e mezzi a cuocere assieme alla carne d’agnello.
E, mentre gustate questa impareggiabile delizia, pensate quanti secoli di tradizione e quante generazioni di raccoglitori d’erbe ci sono voluti, per renderlo così: perfetto, sublime.

Geppe Inserra

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Author: Geppe Inserra

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