Quanta storia e quanti misteri nasconde il “Campanone” del Municipio di Foggia… Li ha raccontati Marco Laratro, raffinato giornalista che per tanti anni ha lavorato alla Gazzetta del Mezzogiorno e all’Ufficio Stampa del Comune, sul “Murialdino“, il periodico dell’Associazione Amici ed Ex-allievi del Murialdo di Foggia. Lettere Meridiane ringrazia l’autore per aver autorizzato la pubblicazione dell’articolo e Michele Paglia per averlo mezzo a disposizione, assieme ad altre “chicche” che pubblicheremo prossimamente.
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Per “chi” suona una campana?
Prima ancora di Hemingway, una risposta letteraria era venuta, quasi quattro secoli fa, dalla penna d’oca di una singolare figura di poeta e saggista inglese: John Donne. “Nessun uomo è un’isola …-aveva scritto fra l’altro, alla metà del ‘600 – …Ogni uomo è una parte della terra. / … Ogni morte mi diminuisce / perché anch’io sono parte dell’umanità. / E perciò non chiedere mai / per chi suona la campana. / Essa suona per te…”.
Non solo voce di richiamo civile o invito alla preghiera; o ritmo cadenzato di scansione del tempo, o battiti di allarmato avviso di qualche sventura. Per Foggia – che pure è ricca di chiese antiche e nuove, e costellata di cupole e campanili – anche con tocchi sempre più afoni e radi, la campana che compendia idealmente i suoni e i valori della vita quotidiana, è una sola: quasi per antonomasia, il “Campanone”, che ormai da quasi un secolo affaccia le sue rotondità di bronzo dall’alto della torre del Comune. Certo meno mistici di quelli di chiese e conventi, i suoi laici rintocchi: ma proprio per la libera ampiezza di sonorità e capacità espressiva, si rivelavano di preziosa e quasi insostituibile utilità particolarmente in tempi passati, quando la moderna, immediata comunicatività di Tv, radioline e cellulari era ancora tutta da inventare. Ecco che, allora, proprio dalla torre campanaria del Palazzo di città si libravano i più svariati messaggi sonori: dai democratici inviti alle riunioni del Consiglio comunale, fino agli allarmati tocchi “a martello” in casi eccezionali di pericoli incombenti. E appunto in occasioni di questo tipo il vecchio Campanone ha esaltato il senso della sua presenza e il valore della sua funzione: come quando, nei giorni angosciosi dell’estate del ’43, le cadenze improvvise dei suoi rintocchi sostituivano il graffio lacerante delle sirene d’allarme zittite da qualche precedente esplosione: e i foggiani, provvidenzialmente avvertiti di un bombardamento in vista, potevano cercare precipitoso riparo in rifugi ufficiali o improvvisati. Infine, passato il terrificante fragore delle grandinate di bombe e spezzoni, ecco, sempre dalla Torre del Comune, altri tòcchi, questa volta con un’eco di dolceamaro sollievo, a segnalare il “cessato allarme” e spingere la gente a un trepidante ritorno all’aperto, nelle strade, tra macerie di case, fuoco e fumo d’incendi residui, sangue di feriti e, dovunque a terra, tragiche immobilità di corpi dilaniati.
Sicuramente non si sarebbe potuto immaginare il destino a così tristi incombenze quando il 13 marzo 1933, nella solennità di una storica cerimonia inaugurale, l’arch. Armando Brasini consegnò il maestoso ‘Palazzo del podestà’, realizzato nell’arco di poco meno di un triennio (basti rammentare che il progetto di costruzione era stato approvato dal Comune appena il 3 gennaio 1929, con una spesa di 7 milioni di lire): 27 metri d’altezza su un’area di 2.800 mq., con 103 vani di sale ed uffici distribuiti su quattro piani. Al centro della facciata un imponente portale di ferro aperto verso il piazzale; e ariosamente ai lati due scaloni esterni protèsi verso le ampie arcate dell’arengo. Alle spalle, lo slancio rosato dei 53 metri dell’inconfondibile Torre con dentro, appunto, la sonante presenza del campanone.
Fuso, allora, nelle premiate Officine Giustozzi di Trani, questo ha un peso di 36,60 quintali, e -con un’altezza di 1 metro e 90, ed un diametro di 1,80 – potrebbe racchiudersi, idealmente e armonicamente, in un cubo del volume di 8 metri. Tomo tomo, tutto un arabesco di scritte e di fregi, a celebrare, nello spirito dell’epoca e con allegorici riferimenti, frutti e protagonisti della più tipica vocazione, non solo produttiva, della città e del suo territorio: spighe di grano, quattro aratri con otto buoi trainanti; un paio di contadini. E al centro – con lo stemma di Foggia e un serto di fronde di quercia – un trionfale “fascio littorio” che neppure la più virulenta iconoclastia antifascista ha mai pensato di andare a piallare. Resta tutt’intorno, altrettanto indelebile, un’armonica quartina di versetti latineggianti, il cui testo è riportato diligentemente – ma con qualche dubbio sulla fedeltà di certe trascrizioni – dal settimanale “Il popolo nuovo – Il Foglietto” del 30 settembre 1935: precisamente, ’’Barbaros odi. / Italos amo. / Sonitu oro. / Civesque clamo”.
Proprio su quel testo si sono appuntati nel tempo i più vari e lodevolmente volonterosi tentativi di traduzione o almeno d’interpretazione. Tra i più classici, “Ho odiato i barbari. Amo gli italiani. Prego col mio suono. Chiamo a raccolta il cittadino”. All’altro capo, una visione un po’ più estrosa e sorprendente: “Ascoltai i bardi (quali reconditi motivi possono mai indurre, proprio a Foggia, ad un morboso interesse per .. .poeti e cantori di tempi remoti e culture e paesi addirittura celtici ?). / Sono grato all’Italico (è l’omaggio di un viaggiatore a…un treno dell’epoca?). Prego con amore (ma la preghiera non si fa in silente raccoglimento?) / e chiamo a gran voce il cittadino”. Nel mezzo la raffinata versione di un altro studioso foggiano, che ha scelto l’anonimato: “Ho avversione per gli stranieri. / Amo gli Italiani. / Parlo con il suono / e chiamo a raccolta i cittadini”. Pur nel civile garbo dei toni, anche questo testo non riesce comunque a dissimulare quella sottile vena di intransigenza xenofoba che – a torto o a ragione – già dagli anni ’30 echeggiava fin nei versetti celebrativi di una pacifica campana comunale…
Interrogativi e misteri non si circoscrivono comunque solo al bronzo del Campanone: anzi, secondo una leggenda che trova echi in fantasie popolari tra divertite e preoccupate,
addirittura gli aleggiano attorno. Ancor oggi, infatti, più d’uno continua a credere e parlare dell’ombra di una piccola suora che si aggirerebbe inquieta di notte per gli spazi ai piedi della cella campanaria. I riferimenti di natura religiosa, in proposito, non mancano, se si pensa che, in fondo, il Palazzo di città, con la sua Torre rosata, è sorto, a Foggia, su un suolo doppiamente consacrato. Per fargli spazio, infatti, era stato necessario abbattere (per ricostruire comunque, successivamente, nei dintorni) ben due edifici sacri: la chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo, e il convento del SS. Salvatore, legato alla duplice devozione per suor Maria Celeste Crostarosa e sant’Alfonso de’ Liguori.
E appunto di lì poteva venire il fantasma della monaca: che, senza pace e senza casa, era divenuta insofferente, e addirittura manesca, dopo essere stata sfrattata dal convento impietosamente abbattuto verso il 1930. Ben ne sapeva qualcosa – e lo raccontava con dolente sgomento – il vecchio custode del Comune – il caratteristico “palazziere” – che più d’una volta, uscendo dall’ascensore nel corso dell’ultimo giro d’ispezione serale, proprio davanti alla scaletta della Torre si era sentito addosso il soffio d’un fiato gelato, seguito da un paio di gagliardi ceffoni sulle gote. Impossibile, al buio, vedere l’aggressore (qualcuno ancor oggi giunge a malignare sulla presenza di qualche impiegato o funzionario: burlone, o interessato a allontanare controlli a qualche sua equivoca permanenza oltre orario negli ambienti del Palazzo).
Ma infine anche lui s’era rassegnato a convincersi che il fantasma manesco dovesse essere in realtà quello della suora, mentre a ogni sberla il Campanone sembrava partecipare dall’alto col brivido di una sottile vibrazione: sadico sberleffo o solidale compassione?
Eco di leggenda pure questa: perché una campana può sprigionare ben altri – e più alti e nobili – suoni, anche quando questi non hanno colori di canto o allegria.
Con la cadenza dei tocchi si fa voce del tempo; e quando vibra sui sentimenti, per chi sa ascoltare diventa battito di cuore.
Allorché però sale chiara a varcare ogni confine di muri e barriere, la sua voce diventa inafferrabile come l’aria, incontenibile come il pensiero; col timbro della trasparenza e un profumo di libertà.
Marco Laratro
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A beneficio dei lettori si ricorda che “barbari” erano per i Greci e per i Romani i popoli con differente civiltà, che “odi” è perfetto con significato di presente (così come sono al presente anche le altre tre forme verbali riportate sulla campana) e che “cives” è accusativo plurale (non singolare).