Carnevale, la maschera che nasconde il bisogno (di Anacleto Lupo)

Grande giornalista, raffinato scrittore, attento osservatore della microstoria rivelata dalla vita quotidiana, Anacleto Lupo è un maestro di quel “realismo magico” che ebbe i suoi epigoni in Anna Maria Ortese e Massimo Bontempelli, e di cui è intriso il suo capolavoro: Taccuino di un cronista nelle piazze del Sud (Bari, De Donato, 1982), un libro prezioso che andrebbe riletto e riscoperto, e della cui genesi chi scrive ha avuto la fortuna di essere testimone oculare e privilegiato.
Capo della redazione foggiana della Gazzetta del Mezzogiorno dagli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta, Lupo ha offerto anche sulle pagine del quotidiano regionale splendidi saggi della sua attitudine a sublimare la cronaca, permeandola di magia e di suggestione, ma sempre avendo la realtà quotidiana a riferimento. Lo dimostra l’articolo che potete leggere di seguito, pubblicato sulla pagina foggiana della Gazzetta il 6 febbraio 1964, e che racconta il Carnevale di allora, riportandolo, però alle sue radici, alle sue espressioni più ancestrali e profondamente meridionali.
Anacleto Lupo è stato anche un grande meridionalista. Ma il suo meridionalismo nasceva dall’osservazione della realtà quotidiana, più che da una scelta ideologica o politica. Anche in questo senso l’articolo, che venne pubblicato con il titolo Storia del Carnevale di Capitanata, espressione dell’indole del popolo / Dietro le maschere dell’allegria per secoli i tristi volti del bisogno, rappresenta un saggio di grande giornalismo e di autentica letteratura, che racconta la festa carnascialesca come “un divertimento semplice e spontaneo, pervaso però di penosa e umanissima malinconia della gente tormentata dalla fatica, dalla povertà e dalle disuguaglianze sociali.” (G.Ins.)

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Foggia, 8 febbraio
Carnevale d’altri tempi, ormai relegato nei ricordi. In verità, in Capitanata (da Foggia a San Severo, da Lucerà a San Marco La Catola e cosi via) esistevano due Carnevali: quello ufficiale, che si celebrava (solo a Manfredonia continua ancora a celebrarsi) negli ultimi tre giorni precedenti la Quaresima e che richiamava con la imponente e pittoresca sfilata di «carri allegorici» folle di cittadini ed anche di forestieri. Era un Carnevale, senza dubbio, ricco di pregi, che vantava uno scelto ed accurato repertorio di oggetti ispirantesi a motivi di attualità, a scene di vita campestre e alla cui brillante riuscita contribuiva l’intero paese, dai professionisti agli artigiani, ai commercianti, ai ragazzi.

Né mancava la sfilata delle «maschere di carattere», di creazione prettamente popolana, vivace rassegna degli avvenimenti e dei personaggi locali e nazionali, che maggiormente si prestavano ad essere rappresentati in chiave satirica e caricaturale. Un carnevale dunque, che avrebbe dovuto essere senz’altro sostenuto e potenziato nel diversi centri della provincia e che, attraverso il Carnevale dauno che ormai da undici anni si celebra a Manfredonia, c’è da augurarsi che resti in vita e diventi un centro di attrazione sempre più notevole.

Gravi problemi

Ma lasciamo da parte questo discorso e torniamo ai due carnevali, cui sopra accennavamo. Uno, quello ufficiale. celebre, l’abbiamo brevemente illustrato. Accanto, o se volete mescolato con questo, ce n’era un secondo, sconosciuto, con una fisionomia particolare, inconfondibile, tutta sua; differente, anzi opposta alla solita, standardizzata fisionomia del Carnevale tradizionale. Non era soltanto un avvenimento del calendario – circoscritto nel tempo, e neppure un semplice sfogo di allegrìa e di buonumore, una vacanza dello spirito insomma. Era e continua ad essere tuttora — sia pure nel ricordo con solo qualche traccia rimasta in vita in alcuni comuni (San Marco La Catola, Biccari, Panni ecc.) l’ originale, e sotto certi aspetti, sconcertante espressione dell’indole di una popolazione che, attraverso un’apparenza di spensieratezza, rivela se stessa con i suoi bisogni e i suoi problemi più intimi e gravi.
Per i dauni — e intendiamo riferirci al popolo composto di contadini e piccoli artigiani — il Carnevale non si riduceva a una festa di casa o di piazza che sia, fondata sulla solita formula corrente del «divertimento per il divertimento». Era un Carnevale non Carnevale.
Misterioso fenomeno del realismo, proprio della gente meridionale? Certo è che la stessa origine di questo ignoto Carnevale nel diversi centri della Capitanata, corrisponde a periodi turbolenti di storia (si può parlare addirittura di epoca feudale).
Dalla viva voce di alcuni vecchi, (sia foggiani e lucerini, volturinesi e bovinesi) abbiamo sentito raccontare che il Carnevale nel loro paesi era sorto per una specie d’improvvisa, grottesca esplosione, secoli e secoli addietro. Gruppi di contadini, intenti a lavorare nelle vigne dei signori, a un tratto, per riscaldarsi (si era nel mese di dicembre) avrebbero cominciato a battere i piedi a ritmo sempre più accelerato, agitando le zappe e intonando canti improvvisati. E così, lasciate le vigne, sempre danzando e cantando, si sarebbero recati in paese e avrebbero preteso dai loro signori di essere lasciati liberi di divertirsi almeno per qualche giorno. Un divertimento semplice e spontaneo, pervaso, però, di una penosa e umanissima malinconia che prorompeva dai profondo del cuori di una gente, tormentata dalla fatica, dalla povertà e dalla ingiustizia sociale che in un giorno di spensieratezza si illudeva di trovare una possibilità di sfogo.

Protesta sociale

Storia o leggenda? Domanda senza risposta. Tuttavia, un vecchio lucerino del rione detto delle Mura, ci ha canticchiato con la sua tremula voce, una filastrocca che suona pressappoco così:
«Santo Stefano, per te / noi cantiamo oggi così. / La tua gente poverella / si diletta per un dì, / tramutando in allegria / la fatica e la tristezza. / Una maschera che ride / copre i nostri volti oscuri / pochi giorni durerà. / Poi, la vita nera e amara / per noi tutti tornerà: / nella vigna ad innestare, in campagna a seminare / e il padrone ad ingrassare. / Ma contento il cuore nostro negli affanni resterà. / Santo Stefano con te.» Sono i versi più antichi del più antico poeta-contadino della Daunia?
Il vecchio del rione «Le Mura» ha continuato a raccontarci che, dopo quelle famose danze improvvisate, ogni anno i lucerini si radunavano in massa nelle strade, per seguire ed ascoltare il cantore, che sopra un carro agricolo trascinato da un asino, faceva il giro del paese e declamava nei crocicchi, con addosso pantaloni e giacca infilati alla rovescia e in testa un cappello messo anche alla rovescia (quegli abiti capovolti volevano essere il simbolo della povertà e il carro veniva denominato «u trono d’i puverelle»).
Sarebbe sorto così il primo Carnevale di Lucera e di tante altre cittadine della Capitanata, e per una pura coincidenza, potremmo dire, perché quella primitiva manifestazione, inserendosi cronologicamente nel periodo carnevalesco, man mano, attraverso i secoli, andò assumendo proporzioni più vaste e toni più complicati e profani.
Lo spirito originale, però, con quell’impasto di allegria e di tristezza e quel senso di sottile realismo, rimase intatto e vivo. Ne venne fuori un Carnevale antitradizionale, per eccellenza se volete, un Carnevale in sordina, quasi invisibile, una specie di cruda, umoristica, malinconica protesta sociale.

Immagini del pianto

In tutti i centri della Capitanata, grandi e piccoli, da Foggia a Cerignola, da Carlantino a Bovino — secondo quanto ci hanno riferito alcuni anziani — sino allo scoppio della seconda guerra mondiale, non c’era casa di povera gente in questo periodo, dove sul muro — un muro nero di tempo e di fumo — insieme con la falce, la spiga di grano e il ramoscello d’ulivo, non si scorgesse, appesa a un chiodo, una maschera inghirlandata di nastri colorati. Ebbene, la più profonda definizione della maschera l’abbiamo raccolta proprio dalla bocca di alcuni popolani, quando ci hanno detto con la orientaleggiante cantilena del loro dialetto: «A mascr(e) té a f(e)sonumie du chiante».
Maschera, fisionomia del pianto. Perciò alcuni vecchi lavoratori dauni chiamano la parte anteriore del teschio, con le vuote occhiaie, la fila sghignazzante dei denti: «a’ mascr(e)» e «mascr(e)» chiamano ancora un volto scarno ed emaciato per la fame. Perciò una delle strofette più in voga nel Subappennino dauno diceva: «Farinella, farinella, / sei la maschera più bella». La farinella era ed è ancora una pietanza fatta di farina d’orzo impastata con acqua, che mangiavano e mangiano tuttora quelli del popolo nel giorni di fame.
Strano Carnevale davvero. Esistono numerosi frammenti paesani, ricchi di sottintesi umani e sodali che, riuniti insieme, formerebbero un caratteristico repertorio antologico di massime carnevalesche dal sapore piuttosto amaro, tutt’altro che carnevalesco. Sono li «ditt(e)», come li chiamano in numerose località di Capitanata. Per molti popolani della provincia di Foggia infatti, il motto comune «a Carnevale, ogni scherzo vale» si è trasformato in «Carnevale, ogni ditt(e) vale», quasi a mettere in risalto il contenuto serio e grave che per essi si cela nel chiasso e nel buonumore di questa ricorrenza. Eccovi alcuni di questi «ditt(e)»: «Ogni giorno ha la sua maschera», «Che miracolo a Carnevale, il pezzente al ricco è uguale. Rivestita da pacchianella, anche la miseria diventa bella». «Oggi risi e suoni, domani lampi e tuoni». «Se Carnevala durasse eterno, tutto il mondo sarebbe un inferno». E per finire: «Balla, compare mio, chi oggi è festa: / è Carnevale senza guai in testa. / Però, compare mio. / non ti scordar della sentenza antica: / la festa del cafone è la fatica ».
Sconosciuto, paradossale Carnevale di Capitanata, fatto per ricordare la realtà, non per dimenticarla. Antica. assurda maschera di questo tormentato Sud, che tuttora non riesce a nascondere, neppure nel giorno più allegro e spensierato dell’anno, il suo scuro, triste volto, scavato di profonde e secolari rughe.
Anacleto Lupo

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Author: Geppe Inserra

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