Più viaggio sentimentale che non reportage, questo testo struggente che Francesco A.P. Saggese regala ad amici e lettori di Lettere Meridiane. L’autore racconta il suo arrivo nella cittadina garganica dal mare. Un approccio e un punto di vista non consueti, che consentono di trovare sguardi, stati d’animo ed emozioni profonde che Francesco descrive con nitidezza e intensa partecipazione emotiva, contagiano i lettori di pathos. Il testo di Saggese è impreziosita da un bel reportage fotografico di Pasquale D’Apolito. Le immagini sono disponibili in due distinte versioni: come galleria fotografica, in risoluzione originale, e come filmato, accompagnato da alcuni brani del testo di Saggese, e dalle note di Gargano Elegy dell’impareggiabile Teo Ciavarella, grande musicista originario di San Marco al Lamis.
Trovate l’una e l’altra alla fine dell’articolo.
Vi consigliamo di leggere e guardare tutto: prendetevi il tempo necessario per una full immersion in tutto il materiale testuale, audiovisivo e fotografico che vi condurrà alla scoperta di una dimensione profonda del Gargano. (g.i.)
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Arrivo a Rodi dal mare, da questo mare antico.
La prua della barca crea due nastri bianchi e ondulati che cadono un po’ più in là dei suoi fianchi, e che poco a poco il mare si riprende e appiana.
Il mare su cui scivolo ha un colore che ora si confonde con il cielo all’orizzonte, un profumo che come un balsamo mi accarezza la pelle.
Rodi è adagiato sulle sue rupi salmastre e guarda il suo mare come solo un amante potrebbe fare.
Rodi è un faro di luce bianca.
Le braccia del suo porto si spalancano a poco a poco davanti agli occhi, come un amico che ti aspetta da tempo mentre corre incontro ad abbracciarti.
Gli alberi delle barche ormeggiate al porto si ergono verso il cielo, come i grossi comignoli che salgono verso l’alto dai tetti.
I pescatori, che sono passati e che passano da questo luogo con le loro storie trasportate dalle onde alla riva sabbiosa, sono come dei versi che si rincorrono uno dietro l’altro.
Il pescatore Antonio una volta mi disse che tutti i giorni della sua vita, fin da quando era bambino, era vissuto su questo mare e che lui senza questo mare non ci sapeva proprio stare.
E anche con tutti gli anni che si portava addosso, con i suoi movimenti lenti e zoppi, almeno una volta al giorno il mare lo doveva vedere, lo doveva sentire, respirare, perché ne aveva bisogno come un bimbo piccolo ha bisogno del latte materno.
Il pescatore non aveva mai letto un libro e non era solito sfogliare le prime pagine dei giornali, ma sapeva leggere il sole, la luna, le stelle, le maree.
Continuo a guardare Rodi nella sua possente armonia fatta di casette bianche e di tetti che si arrampicano uno sull’altro, di finestre spalancate che come tanti occhi ti guardano; sento il suono lontano di una radio, una signora guarda il mare seduta su una panchina di marmo, volano dei gabbiani.
Rodi ti parla da sola, si racconta davanti agli occhi.
Già questa veduta sul paese, che è fissa nelle pupille dei miei occhi, mi avvolge e mi trascina nella sua bellezza antica, che parla di architetture, di fede, di lingue, di sapori.
Da questo punto si vede appena “u vuccule”, una sorta di balconata che si fa spazio tra le case affacciandosi sul porto e su orizzonti più lontani ancora.
Si racconta che le donne del paese da qui, con il cuore affidato alla Madonna protettrice, urlavano i nomi carichi di destino dei loro mariti pescatori, ora perché in preda a una tempesta, ora perché intenti da ore e ore a rammendare le reti da pesca.
E mi pare di sentirle queste voci di donne garganiche mentre chiamano il nome di Cosimo, di Damiano, di Cristoforo, di Michele; le sento urlare i nomi di chi è seduto davanti alla lunga rete da pesca, di chi è sbarcato ora dal mare carico di rabbia e di vento, le sento urlare i nomi di chi non è tornato e non tornerà mai più; le vedo con i figli in braccio e con i capelli sciolti sulle spalle, le vedo correre fino a quaggiù con gli zoccoli ai piedi, le vedo mettersi la mano in fronte per scrutare meglio la pelle di pachiderma del mare.
M’incammino sulla riva: c’è una barchetta che esce dal porto e che lenta lenta scivola su questo mare liscio e brillante; su questa via dove andrà, mi chiedo, perché qui si arriva, ma da qui si parte.
Qui arrivò pure Pier Paolo Pasolini, che perse il battello per le Isole Tremiti e qui riposò una notte.
Inseguo le sue orme sulle spiaggia, poggio gli occhi sul suo stesso orizzonte, mentre rincorro nella memoria le parole che scrisse: “Io cammino per la piccola spiaggia deserta, ai piedi del paese. E nel silenzio che c’è fuori e dentro di me, sento come un lungo, afono crollo”.
Pasolini è stato qui, ha sentito il profumo degli agrumi che si rincorrono nei giardini affacciati su questo lembo di costa garganica e che, a sentire pure Bacchelli, durante la fioritura fanno venire le lacrime agli occhi; arance e limoni che un tempo da questo porto, partivano avvolti come pepite in preziose e variopinte veline, a bordo di velieri pronti a sfidare l’oceano.
E così comincio a sentirmi piccolo di fronte a questa meravigliosa grandezza che ho davanti a me, nei miei occhi, sulla mia pelle, nei miei pensieri, nel mio sangue.
Vorrei fermarmi per sempre, diventare un granello di questa sabbia, uno scoglio di questo mare, un pesce che salta nel mare, la barca del pescatore, una randa ammainata in una barca del porto, fosse solo per ammirare in un angolo di ogni giorno che verrà questa terra, che si allunga da levante a ponente, questo paese che si schiude come una zagara ad aprile, queste case pennellate dal vento salato, questo mare carico di miti, di storie e di destino.
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[La galleria fotografica è stata realizzata da Pasquale D’Apolito (28mm Studio).]
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