Salvo improbabili colpi di scena, il Mezzogiorno è destinato a restare escluso dalla nuova Via della Seta che vedrà la luce con la firma del “memorandum” Italia-Cina.
L’emarginazione del Sud del Bel Paese da quel che potrebbe diventare il più importante canale commerciale d’Europa stava già scritta, da quando i cinesi, per il tramite di Cosco, gigante mondiale della logistica, hanno acquisito la metà del porto del Pireo, trasformandolo nell’hub più importante del Mediterraneo.
I porti pugliesi sono troppo vicini a quello greco per poter sperare di poter ospitare il termine italiano della Road Silk, e non solo: la situazione delle ferrovie e della strade che dovrebbero poi far transitare le merci verso il Nord è a dir poco precaria, manca l’alta velocità.
Il Mezzogiorno paga la mancanza di una visione strategica da parte dei governi che negli ultimi decenni si sono succeduti alla guida del Paese. Un’area che, per geografica, per cultura e per tradizione, rappresenta il cuore del Mediterraneo è stata di fatto periferizzata dalla mancanza di investimenti nei settori cruciali dei trasporti e della logistica.
Date queste premesse, il già pesante divario che separa il Mezzogiorno dal resto del Paese e d’Europa è destinato ad aggravarsi.
Sulla esclusione del Sud dalla Via della Seta hanno gravato altre due criticità, che hanno visto i governi italiani assenti o almeno distratti: la scomparsa del corridoio paneuropeo VIII dalla lista dei progetti prioritari dell’Unione Europea e la mancata valorizzazione del porto calabrese di Gioia Tauro, che avrebbe potuto interessare direttamente anche la Capitanata.
Le ragioni della caduta d’interesse comunitario verso il Corridoio VIII non sono mai state del tutto chiarita. Qualcuno ha ipotizzato che il governo italiano abbia optato per il finanziamento di lotti particolari dell’opera, come il Porto di Taranto e la linea ad alta capacità Napoli-Bari, secondo la logica perversa che da sempre ha penalizzato il Mezzogiorno nelle politiche nazionali: stornare finanziamenti strategici per la realizzazione di opere che avrebbero potuto e dovuto essere sostenute con interventi e finanziamenti ordinari.
Gioia Tauro declina invece uno dei nodi più amari (ma emblematici) dell’attuale questione meridionale. Qualche mese fa, la trasmissione di Rai3, Report, ha mandato in onda un bel reportage in cui venivano simulati gli scenari di sviluppo che andrebbero ad aprirsi se il porto di Gioia Tauro venisse utilizzato in tutte le sue potenzialità.
Secondo i tecnici, cambierebbe il volto di tutto il Paese: Gioia Tauro sarebbe la premessa al superamento definitivo del divario. Il nord che tira diventerebbe la Calabria, che intercetterebbe i flussi commerciali provenienti dal canale di Suez e dal resto del Mediterraneo, li lavorerebbe e li redistribuirebbe in tutto il Paese, che li rilancerebbe in Europa e nel resto del mondo.
Il più serio ostacolo a questo scenario è rappresentato dalle difficoltà di connessione tra la Calabria e il resto della penisola. Ma è qui che la Capitanata potrebbe dire la sua, rilanciando la sua vocazione antica di cerniera tra Nord e Sud.
Nel suo bel libro Foggia, urbanistica e territorio tra passato e futuro, lo studioso foggiano Matteo Pazienza vagheggia l’idea della Capitanata come possibile retroporto di un’area vasta meridionale che comprende Gioia Tauro, Napoli, Salerno e Manfredonia. Per strano che possa sembrare, non occorrerebbero sovrumani investimenti: basterebbe infatti realizzare una bretella ferroviaria e/o autostradale che intersechi la direttrice Salerno-Reggio Calabria per attraversare il territorio lucano, fino a raggiungere il Tavoliere, che resta la più grande pianura dell’Italia peninsulare.
La morale è che per rilanciare le prospettive del Mezzogiorno bisogna volare alto, guadare in alto. Ma troppo spesso, negli ultimi anni, è accaduto l’esatto contrario.
Geppe Inserra
Views: 0