Altro che l’autonomia regionale rivendicata da Veneto e Lombardia. Se l’Italia vuol essere uno stato di diritto, inclusivo e democratico, deve affrontare e risolvere una volta per tutte la questione meridionale, che trae origine proprio dall’Unità d’Italia.
La sciagurata ipotesi della “secessione dei ricchi” sta sortendo l’effetto opposto, rilanciando e riaccendendo i riflettori sulla questione meridionale che negli ultimi anni si era – diciamo così – assopita.
A mettere il dito nella piaga è un documentato studio di due valorosi ricercatori, Guilherme de Oliveira e Carmine Guerriero, pubblicato sulla prestigiosa rivista olandese International Review of Law and Economics (Volume 56, Dicembre 2018, Pagine 142-159) e ripresa in estratto sul sito lavoce.info.
I due studiosi partono proprio dallo scontro sul federalismo differenziato per sottolineare come esso sia “solo l’ultima manifestazione della questione meridionale.”
Sia il saggio che l’articolo, emblematicamente intitolato “La questione meridionale? Nasce con l’Unità d’Italia” approdano a conclusioni originali e interessanti, utilizzando un nuovo modello di analisi. La ricerca è approdata nella bibliografia della ricca e documentata voce che Wikipedia dedica alla questione meridionale.
Domandandosi a quando risalga l’origine dei divari regionali tra Nord e Sud Italia, gli autori rispondono: “A favorirli sono state le politiche economiche dei primi governi dopo l’unificazione del paese. Ed è una lezione che andrebbe tenuta a mente ancora oggi, quando si parla di federalismo differenziato.”
De Oliveira e Guerriero ribaltano la nota teoria di Robert Putnam che attribuisce le ragioni del divario tra Nord e Sud al maggiore civismo (o senso civico) e alla maggiore efficienza amministrativa del Settentrione: “i due blocchi – scrivono – erano parimenti sottosviluppati nel 1861, a causa della scarsità di capitale umano, capitale reale e infrastrutture.”
Secondo de Oliveira e Guerriero, “gli attuali divari Nord-Sud si aprirono principalmente a causa delle politiche economiche dei primi governi postunitari. Dominati dall’élite settentrionale, che produsse l’85 per cento dei presidenti del consiglio, tutti i prefetti e il 60 per cento dei vertici amministrativi, quei governi favorirono, tra le tredici regioni annesse dal Regno di Sardegna nel 1861, quelle più vicine ai confini militarmente più rilevanti per i Savoia e minarono civismo, capitale umano e crescita di quelle più distanti.”
La figura qui a fianco mostra la rilevanza politica delle regioni annesse dal Regno di Sardegna. In marrone chiaro le regioni facenti parte originariamente del regno, in verde quelle ad elevata rilevanza politica, in rosso quelle che denotano una rilevanza politica media, in celeste quelle la cui rilevanza politica è stimata bassa. In sostanza tutto il Mezzogiorno, con l’aggiunta del Lazio.
I due studiosi puntano l’indice contro le “politiche estrattive” poste in essere dallo Stato Unitario. La nozione di “politiche estrattive” merita qualche ulteriore considerazione. La versione integrale del saggio di de Oliveira e Guerriero è intitolata “Extractive states: The case of the Italian unification”, che letteralmente può essere tradotto come “Stati estrattivi: il caso dell’unificazione italiana”.
L’idea di “Stato estrattivo” contrapposto allo “Stato inclusivo” è complessa, ed è stata introdotta da Daron Acemoglu e James Robinson nel loro celebre libro Why Nations Fail (Perché la nazioni falliscono).
Sul New Yorker, Chrystia Freeland ha illustrato il concetto con rara sintesi ed efficacia: “Gli stati estrattivi sono controllati da élite dominanti il cui obiettivo è estrarre la maggior ricchezza possibile dal resto della società. Gli stati inclusivi danno a tutti l’accesso a opportunità economiche; spesso, una maggiore inclusività crea più prosperità, il che crea un incentivo per un’inclusione sempre maggiore.”
Secondo de Oliveira e Guerriero è stata proprio l’inclusività a far difetto al cammino dell’Italia postunitaria e a danneggiare il Mezzogiorno, che pure non partiva da una situazione di debolezza, rispetto al Nord.
“Le nostre stime – si legge nel loro lavoro – mostrano che, prima dell’unificazione, la tassazione diminuiva con la produttività agricola di ciascuna regione, ma non era legata alla sua rilevanza politica. Dopo il 1861 è vero il contrario. I risultati sono coerenti con il maggiore potere militare, e quindi impositivo, dello stato postunitario. Inoltre, la distorsione della tassazione, misurata dalla differenza tra gettito pro capite postunitario e quello previsto attraverso le stime preunitarie, e il peso delle altre politiche estrattive, sintetizzato da bassa rilevanza politica e limitati costi di esazione, sono legati a un maggiore deterioramento del civismo, a un più lento calo dell’analfabetismo e a una minore crescita”.
Questa pesante distorsione è all’origine della questione meridionale, e non è mai stata corretta (e forse nemmeno seriamente affrontata) dai diversi governi che si sono avvicendati alla guida dell’Italia.
La conclusione cui pervengono i due ricercatori è allarmante, soprattutto se vista alla luce della “secessione dolce” vagheggiata dal progetto di autonomia differenziata lombardo-veneta: “Dalla dinamica istituzionale che ha caratterizzato l’inizio della nostra storia unitaria si può dunque trarre una lezione utile ancora oggi: politiche economiche che favoriscono solo una parte del paese possono avere un impatto drammatico e duraturo sulle scelte del resto della nazione.”
Come a dire che al danno, si aggiungerebbe la beffa.
Geppe Inserra
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