Monti Dauni, via col vento (di Gianfranco Eugenio Pazienza)

Ambientalista della prima ora e di lungo corso, tenace fautore e promotore del Parco del Gargano, convinto sostenitore di uno sviluppo sostenibile che in Capitanata, tra Gargano, Tavoliere e Monti Dauni potrebbe trovare un suo naturale e avanzato laboratorio di sperimentazione e sedimentazione, Gianfranco Eugenio Pazienza interviene sul confronto aperto da Lettere Meridiane sulla crisi demografica della Capitanata e sulle tesi sostenute nella discussione da Federico Massimo Ceschin.
Le riflessioni di Pazienza sono ricche, approfondite, importanti, anche perché offrono una testimonianza qualificata di “resilienza”. Quel che ai Monti Dauni non è riuscito (mettere in campo strumenti che arginassero lo spopolamento e la desertificazione di quell’area) è stata invece raggiunto, almeno parzialmente, sul Gargano, grazie al Parco Nazionale.
Argomenti che faranno certamente discutere. Preannuncio, in proposito, alcune importanti considerazioni sul tema del sindaco di Biccari, Gianfilippo Mignogna. Insomma, la discussione continua, ed è importante che sia così. Il primo, fondamentale antidoto alla crisi, ad ogni crisi, è l’esercizio del pensiero. (g.i.)

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Caro Geppe, avrei bisogno di un po’ di tempo e di idee, per riflettere con ulteriori argomenti sul “futuro al tramonto della Capitanata tra i Monti dauni e il Gargano”, dibattito già ricco su Lettere Meridiane grazie agli argomenti proposti da Massimo Ceschin. Riparto dal commento scritto a caldo dopo averli letti, colpito dall’acuta definizione che Massimo aveva riportato per meglio inquadrare il tema dello spopolamento riproduttivo: “precariato affettivo” definizione eccellente, ne aggiungo una “politiche anaffettive”, quale manifestazione e atti di disistima verso le risorse (e le persone) vere, utili a questo territorio. Arminio le definisce anche politiche del rancore (…).
Questo avevo scritto e ora mi tornano utili alcune riflessioni nate nel corso di una passeggiata pomeridiana, nei luoghi cari dei Monti Dauni, in compagnia di quel “vento forte tra lacedonia e candela” (ancora Franco Arminio). Borghi autentici, sferzati dal vento e sui crinali li scorgi imbiancati, confusi nel movimento degli aerogeneratori, arroccati tra una selva e l’altra delle torri delle pale eoliche.
“Via col Vento”: le pale e via le persone. Agli inizi degli anni Novanta, si diceva che i parchi eolici avrebbero portato ricchezza per le piccole comunità del nostro Appennino. Dovevamo sacrificare una parte del paesaggio e, con i nostri ricchi valori ambientali, produrre energia pulita. Nuove tecnologie avrebbero stimolato nuove figure professionali, la formazione dei giovani e la loro permanenza, nuove famiglie. Sempre meglio dello spopolamento indotto dalle industrie, dai centri commerciali. Per poter arrestare quella migrazione in fuga dallo sconforto, dalle macerie del terremoto in Irpinia di appena dieci anni prima. Dalla ricostruzione interminabile di case ma non di politiche utili a far rivivere le comunità nei luoghi del dolore, del precariato affettivo, del rancore , dell’abbandono dei servizi minimi, perché non più sostenibili dal punto di vista economico. In fuga dall’abbandono, trascurate le colture, trascinati dal dissesto.
La diffusione dei parchi eolici per oltre 15 anni, spesso fermi nonostante il vento, è avvenuta senza neppure la possibilità per l’energia prodotta, di essere immessa in rete al alta tensione per essere venduta. Un danno per quelle comunità locali, abbagliate dalle seducenti “royalties” e regali di parchi giochi, senza la possibilità di potere accedere all’energia prodotta, perché non veniva immessa nella rete di distribuzione a media tensione, per servire le utenze dei centri abitati e delle case sparse nelle campagne.
Tutto questo doveva svilupparsi nel distretto tecnologico del vento con alta formazione e nuove tecnologie, nuovi investimenti, come nell’idea originale e vincente del professore e amico Pasquale Pazienza, da assessore alla Provincia di Foggia. Sapendo guardare, oltre gli interessi delle multinazionali, nel futuro delle generazioni che ancora dovevano arrivare al mercato del lavoro e della conoscenza, per affascinarle ad una sfida di futuro sostenibile, vivibile, prima che l’emigrazione li portasse via col vento, come avvenuto. Con ogni pala eolica e con una migliore utilizzazione della risorsa del vento, con l’energia calcolata e sviluppata si sarebbe potuto far crescere una nuova famiglia, attraverso la vendita dell’energia con consorzi locali di produttori ed utenze dei piccoli comuni. Oggi l’Appennino avrebbe una popolazione resiliente certo, ma giovane.
Nel 1995, ad una conferenza dei Verdi organizzata a San Marco la Catola nella sede del Centro di educazione ambientale Centro visite della provincia, trattammo di questi argomenti, e anche nel mio intervento, di come affrontare il tema dell’emorragia, della denatalità, del dissesto e dell’abbandono dell’agricoltura, ponendo come rimedio la possibilità di ospitare immigrati. Poteva essere quello il modello Riace per il nostro Appennino. Quegli erano gli anni nei quali nutrivamo la speranza nelle politiche ambientali e dei parchi nazionali, per invertire la logica della “polpa e dell’osso” con cui l’economista agrario Rossi Doria descriveva lo spopolamento e l’abbandono della montagna, osso duro, verso le tenere pianure dove è stato drammaticamente facile il consumo del suolo.
Nel 1995, Anno Europeo dell’Ambiente veniva coniato anche il motto con l’impegno di “salvaguardare l’ambiente per le generazioni future”. Noi che eravamo impegnati ad affermare l’istituzione del Parco Nazionale del Gargano, territorio altrettanto fragile e importante della Capitanata, traducevamo il richiamo alle “generazioni future” non solo guardando alla qualità dell’ambiente, bensì chiedendo anche politiche di sviluppo sostenibile con la preoccupazione di pensare gli investimenti in favore della generazione più prossima alla nostra.
Molti di noi, in prima fila, eravamo neolaureati e impegnati, malvisti per questo nostro impegno nel movimento ambientalista ancora oggi, nonostante aver vinto la battaglia per l’istituzione del parco sia stato un beneficio per tutti, come dimostrato nel breve corso della presidenza di Matteo Fusilli. Ora siamo privi di quello slancio, ma allora riuscimmo a dare vita a varie forme di nuovi lavori, nella speranza e confidando nel sostegno del parco nazionale, siamo diventati nonostante tutto protagonisti di quello sviluppo locale prendendoci cura dei servizi eco-sistemici e ambientali. A fatica e con tanti sacrifici, riuscendo, sul Gargano, a contaminare qualche giovane speranza, dando vita e sostegno a nuove iniziative ed esperienze, li dove germogliano green jobs che molto possono fare per una nuova economia sostenibile. E proprio grazie a questo tessuto sociale emergente che continuiamo a guardare al futuro delle generazioni più prossime, con residuo entusiasmo.
Abbiamo sviluppato una capacità di resilienza per sopravvivere, per contenere a fatica le dinamiche dello spopolamento. Di sopravvivere qui dove abbiamo scelto di vivere, in un territorio parco nazionale dal 1995 privo dei necessari strumenti di pianificazione, di tutela e valorizzazione, nonostante questo continuare ad iniettare impulsi vitali e favorire lo sviluppo sostenibile. Nonostante alcune inspiegabili e perdenti dinamiche politiche, impastoiate nelle difficoltà e ancora arroccate sulle barricate dei sindaci e dei cacciatori di allora contro il parco, che manifestano fuori tempo e fuori luogo una anacronistica residua acredine antiambientalisti, “temibili” e contrari allo sviluppo (qualcuno ancora abbocca a simili spauracchi?), nonostante tutto questo il nostro impegno continua.
Gianfranco Eugenio Pazienza

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Author: Geppe Inserra

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