Non mi appassionano particolarmente le classifiche sulla qualità della vita, e così pure le polemiche che puntualmente ne accompagnano la pubblicazione. Il meglio che si possa dirne è che esse tratteggiano aspetti particolari, e parziali, della situazione di un certo territorio. Ben altra considerazione meritano, invece, le statistiche che fanno riferimento a dati veri, certificati, inoppugnabili come sono, per esempio, quelle che si riferiscono all’andamento demografico.
Per quanto riguarda Foggia e la Capitanata sono da allarme rosso, e la loro analisi mette in evidenza una situazione assai più critica di quella, pur molto negativa, che viene fotografata dalle anzidette indagini. Va detto che la crisi demografica è un fenomeno che riguarda l’intero Paese e il Mezzogiorno in particolare. Già alcuni anni fa, commentando il trend, la Svimez parlava di “vero e proprio tsunami, capace di condurre nei prossimi anni e decenni ad un completo stravolgimento demografico” e sottolineava come tale processo avrebbe avuto pesanti ripercussioni anche sotto il profilo economico e sociale.
Per Foggia e la Capitanata le cose stanno addirittura peggio, come mette in evidenza Smile, istituto di formazione e di ricerca, in un recente studio condotto da Leonardo Cibelli (Breve nota sulle dinamiche demografiche in provincia di Foggia): “Da anni è in corso un processo di declino demografico alimentato da una continua diminuzione delle nascite, accompagnata ad un consistente flusso migratorio. Le dimensioni del declino sono tali da collocare l’area provinciale tra quelle che nel corso degli ultimi 15 anni hanno registrato una più rapida riduzione della popolazione residente.”
I numeri sono eloquenti, drammaticamente eloquenti, come si legge nella tabella qui a fianco: dal 2002 al 2017, la popolazione è calata del -3,18% (-20.670 unità, in termini assoluti). L’età media si è considerevolmente innalzata, passando dai 38,8 anni del 2002 ai 43,4 anni del 2017. La popolazione in età di lavoro (15 -64 anni) ha perduto 21.837 unità (-5,08%), la popolazione con meno di 15 anni è letteralmente crollata (-31.404 pari al -27,41%), la popolazione con oltre 65 anni è cresciuta esponenzialmente (+32.571 pari al 31,24%).
E pensare che fino a qualche anno fa, il saldo demografico, costantemente attivo, era tra le poche voci che rimpinguavano l’asfittica classifica della qualità della vita. Allora il fenomeno della desertificazione sembrava confinato solo ai piccoli comuni del Subappennino.
La situazione è radicalmente cambiata. La fotografia scattata da Smile è tanto nitida, quanto impietosa: “Il numero dei decessi ha superato quello delle nascite, fenomeno che non riguarda ormai più la sola area, da sempre ritenuta marginale, dell’appenino ma segna, con la sola eccezione di alcuni comuni del basso tavoliere, l’intera provincia.”
Segue l’analisi delle cause che hanno innescato una così acuta crisi: “La denatalità non risulta soltanto conseguenza delle modificazioni del senso e del significato della maternità, delle forme di convivenza tra coppie e del ruolo sociale della donna, dei vincoli e degli ostacoli derivanti da collocazioni lavorative sempre più incerte, di un sistema di servizi pieno di carenze, essa è influenzata direttamente dal minor numero di donne e uomini in età riproduttiva, i giovani sono pochi, molti provano a partire, qualcuno ritorna, la gran parte sono precari.”
È stato l’intenso movimento migratorio ad accentuare il fenomeno della decrescita demografica e ad appesantirne le criticità. “Il movimento migratorio – scrive Smile -, pur rallentando dopo il 2008, ha registrato dimensioni veramente imponenti, la sua ampiezza, la circostanza che pur interessando in prevalenza giovani ha riguardato anche interi nuclei familiari e persone in età matura segnalano, se ve ne fosse ancora bisogno, la profondità della crisi nella quale versa la provincia da oltre un ventennio.”
Le partenze (48.000) sono solo parzialmente compensate dagli arrivi (26.000) degli stranieri, che marcano indici di fertilità e natalità di gran lunga più alti dei residenti. Ma si tratta di una sostituzione prevalentemente quantitativa. L’emigrazione ha impoverito anche la qualità del “fattore umano” in provincia di Foggia. di segni negativo il “processo di sostituzione” tra “le caratteristiche qualitative di quelli che partono e degli altri che arrivano, quindi tra segmenti di popolazione con un livello di formazione e di istruzione relativamente elevato con altri con livelli di istruzione e qualificazione più incerti e non immediatamente spendibili.”
Altrettanto preoccupante è quello che l’indagine definisce come “processo di concentrazione”: un circolo vizioso, una spirale perversa ” di tipo circolare e cumulativo tra emigrazione, ridimensionamento delle classi di età giovanili, riduzione della natalità, invecchiamento della popolazione, rallentamento dei consumi e degli investimenti al quale consegue una ulteriore contrazione della domanda di lavoro che alimenta nuova emigrazione.”
“Tale processo – denuncia Leonardo Cibelli -, da tempo già largamente presente nell’area appenninica ma che sembra estendersi all’intera area provinciale, lega la spinta migratoria all’inaridimento del tessuto produttivo in un processo circolare nel quale la mancanza di occasioni di lavoro conduce alla diminuzione dell’offerta di lavoro sino al punto in cui quest’ultima diventa causa essa stessa della mancanza di consumi e dell’assenza di occasioni di investimento.”
Qual che preoccupa maggiormente è la totale assenza di consapevolezza della classe dirigente di fronte a numeri così crudi e drammatici.
Potete scaricare la Breve nota sulle dinamiche demografiche in provincia di Foggia curata da Leonardo Cibelli cliccando qui.
[La foto che illustra il post, dotata di Common Creative License è di Karah Levely-Rinaldi]
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L’art. non fa presente la migrazione di capitali che sta avvenendo insieme a quella dei giovani e dei “cervelli”.Stiamo investendo i ns. risparmi al nord per comprare casa e altri beni durevoli e non per i ns. figli.
L’indagine di Smile era prettamente demografica, e non si occupava dei costi della migrazione messa in evidenza, Il suo commento è tuttavia pertinente e stimolante. Un recente studio Svimez di Gaetano Vecchione, ha stimato in circa 3 miliardi l’anno la perdita derivante dai mancati consumi privati e pubblici conseguenti alla migrazione intellettuale e in circa 2 miliardi l’anno la perdita secca in termini di spesa pubblica regionale investita in istruzione e non recuperata a causa della migrazione. Per cui “la mobilità territoriale dei laureati meridionali, in buona misura è il frutto di una scelta obbligata dalle condizioni di arretratezza del mercato del lavoro del Sud d’Italia che è ad un tempo poco redditizio e poco propenso all’occupazione di figure professionali altamente qualificate”.