Domenico Maria Cimaglia, illuminista sovversivo, che sognò per primo la grande Capitanata

Michele Eugenio Di Carlo ha la rara capacità, pur quando racconta eventi lontani nel tempo, com’è giusto che faccia chi scrive di storia, di farti capire il presente. Quando si riportano alla luce fatti ed eventi locali, si corre sempre il rischio di indulgere a quella storia événementiel tanto criticata da March Bloch e Lucien Febvre. Di Carlo esorcizza questo rischio, conducendo per mano il lettore a vivere l’epoca che narra, a fargli respirare quell’atmosfera, fino a fargli scorgere il filo che annoda quei fatti remoti all’oggi. Il nocciolo sta nell’abilità con cui Michele maneggia i documenti, utilizzandoli quali descrittori di un humus, d’un modo d’essere e di pensare. Tanto per dire, devo al suo saggio “Contadini e braccianti nel Gargano dei briganti” una più puntuale comprensione di quella stagione drammatica che comportò, in nome dell’unità d’Italia, l’occupazione manu militari  del Mezzogiorno.
Il suo ultimo lavoro, freschissimo di stampa, racconta un pezzo di straordinaria importanza della storia della Capitanata: il lungo cammino verso la fine della Regia Dogana delle Pecore e l’affrancamento del Tavoliere dal giogo demaniale, che ebbe tra i suoi epigono Domenico Maria Cimaglia, viestano, che Di Carlo definisce addirittura sovversivo, per l’ampiezza e l’originalità del suo disegno. È un libro da leggere perché, oltre che a ricordare questa importante figura di umanista e di illuminista, contiene stimoli di riflessione utili a comprendere le ragioni per cui il Tavoliere delle Puglie continua ad essere una risorsa straordinaria per tutto il Mezzogiorno, non valorizzata quanto si dovrebbe.
Per gentile concessione dell’autore, Lettere Meridiane pubblica ampi stralci della presentazione del volume, nella parte che riguarda la famiglia Cimaglia, di cui Domenico Maria è stato uno dei più brillanti esponenti. (g.i.)
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Quando nel 1991 il Centro di Cultura «Niccolò Cimaglia» decise di pubblicare il Quaderno n. 8, «I Cimaglia del 700» [1], l’intento dichiarato era quello di trarre dall’oblio i brillanti membri della famiglia Cimaglia: i fratelli Niccolò e Orazio, e i figli di quest’ultimo, Natale Maria, Domenico, Vincenzo.
In realtà Niccolò non era stato affatto trascurato, anche perché celebrato quale vescovo della diocesi di Vieste da Vincenzo Giuliani [2], suo concittadino e contemporaneo.
Niccolò Cimaglia era nato a Vieste nel marzo del 1712 da Natale e Geronima Chionchio. Una famiglia, quella dei Cimaglia, che lo storico garganico Tommaso Nardella fa risalire al 1422, quando Alfonso d’Aragona conquistò il Regno di Napoli, portandosi al seguito Pedro Cimaglia, il quale «si stabilì a Foggia con l’incarico reale di primo “credenziere della mena delle Pecore”, dando inizio ad un rapporto dei Cimaglia con la Regia Dogana di Foggia che diventerà secolare. In seguito, un pronipote di Pedro, Liguoro Cimaglia, si imparenterà  con la famiglia dei baroni De Gennaro, titolari dei feudi di Boiano e di Bagnoli. Prima di ricomparire a Vieste nel Settecento, Nardella rileva l’esistenza di un Guglielmo Cimaglia, tra il 1521 e il 1526, al servizio di Carlo V nell’organizzazione e direzione dell’esercito, date «le sue indubbie  doti militari» [3].
 Niccolò, a 15 anni, sarebbe entrato nell’ordine dei Celestini. Compiuto il noviziato e ultimati gli studi, ventitreenne, fu ordinato sacerdote a Napoli, dove tra illustri letterati venne «destinato a leggere filosofia nel monasterio di S. Pietro a Majella», prima di tornare a Roma in qualità di lettore di teologia al monastero di S. Eusebio.

Stimatissimo dal Papa, lascia Roma, la corte papale, le amicizie influenti e le conoscenze altolocate, l’ambiente dotto e cattedratico, per la diocesi di Vieste. Il popolo di Vieste, dopo aver sofferto dal 1729 l’abbandono della sede da parte del vescovo Niccolò Preti Castriota, lo accoglie con inusitata esultanza, «espressa in elegante latino dal Canonico don Cesare Basciani, che ebbe l’onore di pronunziare il discorso di saluto nella Cattedrale». Basciani era, peraltro, lo zio del Dottor Vincenzo Giuliani, l’autore delle  “Memorie storiche”. [4]
Giuliani, nelle sue “Memorie” non si soffermerà sull’eminente figura del Papa di quei tempi,  non potendo prevedere, né immaginare, la fama mondiale che il futuro  avrebbe lui riservato.
Non un Papa banale e ordinario Benedetto XIV, al secolo Prospero Lambertini, bolognese dalla proverbiale cordialità. Alla morte di Clemente XII, avvenuta nel 1740,  il cardinale Lambertini si era proposto con parole semplici ad un conclave che, perdurante da sei mesi, dettava scandalo: «Volete un buon uomo? eleggete me».
È unanimemente riconosciuto come il cardinale Roncalli del Settecento. Sempre tra la gente dei quartieri popolari di Roma, come un semplice parroco, si accerta direttamente delle precarie condizioni sociali delle classi subalterne e giunge, in pieno clima feudale, a concedere con un ‘enciclica ai contadini poveri la spigolatura su tutti i terreni dello stato della Chiesa, fissando un’ammenda di 30 scudi contro i proprietari recalcitranti..
«A Benedetto non sfuggiva il fatto che con l’assolutismo dei sovrani si affermava sempre più il principio della religione di Stato, mentre col diffondersi dell’illuminismo il cristianesimo stesso rischiava una crisi di esistenza in un mondo sempre più laico […] è lecito il sospetto […] che nel profondo del suo animo Benedetto fosse convinto di liquidare col tempo in gran parte il potere temporale della Chiesa… ». [5]
Un Papa, la cui imponente e, – per certi aspetti –, ingombrante cultura, testimoniata da scritti e bolle, va oltre i limiti angusti dei suoi tempi. Una meteora, un fugace splendore che si ripresenterà dopo più di duecento anni con Giovanni XXIII.
E il vescovo Cimaglia, rispettato, ammirato, tenuto in alta considerazione da una personalità così rilevante e autorevole, illustre nei secoli a venire, non sarà da meno e corrisponderà in pieno alle aspettative papali.
Da Giuliani nulla trapela che vada oltre l’attività curiale e vescovile, se non che «fiorì a’ tempi di monsignor Cimaglia la Montagna dell’Angelo in vari illustri soggetti. Don Celestino Galiano, celebre nel mondo letterario e politico, nato nella terra di S. Giovanni Rotondo, arcivescovo di Taranto, indi di Tessalonica, cappellano maggiore e ministro plenipotenziario del Re». [6]
Uno spunto utilizzato da Pasquale Soccio, nel tentativo di collegare possibili quanto probabili idee, pensieri, convergenze culturali tra Galiani e Cimaglia, nota l’analogia nelle carriere dei due, entrambi celestini e docenti al Sant’Eusebio in Roma, uno dei principali centri italiani di diffusione dei “Principia” di Isacco Newton, dove già nel secondo decennio del Settecento si erano cimentati su arditi testi newtoniani e cartesiani gruppi di studiosi,  tra i quali lo stesso Celestino Galiani, che aveva analizzato con sempre maggiore interesse i principi fisici del sistema copernicano. Non senza l’attenzione inquisitoria del Sant’Ufficio, tanto che Galiani dovette discolparsi dall’accusa di deismo newtoniano.
Chiaramente Soccio, insoddisfatto e ansioso di saperne di più, finisce per chiedersi: «Possibile, dunque, che non ci sia stato uno scambio di vedute tra i due docenti garganici Galiani e Cimaglia sia per dissenso o per consenso? Dal Giuliani nulla emerge, ma l’interrogativo rimane, soprattutto pensando agli ardimenti e relative inchieste subite da Celestino Galiani». [7]
E l’interrogativo, nonché l’ansia di conoscere, non può che riproporsi più forte, perché nel 1759 sorge a Vico del Gargano l’Accademia degli Eccitati, in pieno clima illuministico. E non ci si può non interrogarsi su quali rapporti esistettero tra il vescovo Cimaglia e personaggi di calibro di Domenico Arcaroli (futuro e ultimo vescovo della diocesi di Vieste) e di Michelangelo Manicone, che «lontani dalla seicentesca atletica penitenziale, tenuta invece viva dalle confraternite laiche, interpretano così la medesima temperie riformistica creata da Celestino Galiani, dall’arciprete canosino Domenico Forges Davanzati, dall’arcivescovo di Taranto Giuseppe Capecelatro o dall’arcidiacono Luca De Samuele Cagnazzi». [8]
Non fosse altro per intendere pienamente quali influenze culturali il vescovo Cimaglia abbia trasmesso ai nipoti: Natale Maria, Domenico Maria, Vincenzo, illustri ai loro tempi benché dopo coperti dalla coltre dell’oblio.
È stato il presidente del Centro di Cultura, Giacomo Aliota, a interpretare il sinuoso, perché imprevedibile e inaspettato, percorso da cui nasce l’idea di rendere i giusti meriti ai Cimaglia del Settecento, riportandone azioni, opere, scritti, alla meritata e indiscussa rilevanza con l’intima soddisfazione di chi lavora al recupero della memoria storica del contesto in cui vive: «Anche questa opera è frutto del convegno su Uria garganica, organizzato a Vieste dal «Centro» e dall’Università di Lecce il 1987, che così profondamente ha inciso nella storia di queste nostre contrade […] Fu in quella occasione che il presidente del convegno, lo stesso Pasquale Soccio […] ci passò la tesi di laurea di Anna Maria Acquafredda su Vincenzo Cimaglia, un illustre figlio di Vieste, qui ignoto, ma non ignoto a suo tempo in Europa». [9]
Lo stesso Soccio ricorda l’episodio, non tralasciando di esprimere con  toni taglienti, da intellettuale eccelso qual era, le reazioni degli studiosi presenti: «Quasi totale fu la sorpresa non per la tesi, ma per la scarsissima conoscenza di un “tal Vincenzo Cimaglia”. Molti, abbozzando un manzoniano “chi era costui?”, ostentavano un disprezzo quale difesa preventiva della propria ignoranza». [10]
Così, finalmente, i Cimaglia del Settecento, affrescati dalla penna sapiente di Pasquale Soccio, sono riemersi dalle tenebre alle quali erano stati consegnati da quel «meccanismo perverso» per cui una comunità civile, più spesso di quanto sembri,  dimentica l’essenza stessa del suo essere nel divenire.
Questo testo, La Capitanata al crepuscolo del Settecento, tratterà in particolare delle proposte “eversive” sul mondo pastorale di Capitanata e della grande personalità di Domenico Maria Cimaglia.
 
Michele Eugenio Di Carlo
[Tratto dal testo “LA CAPITANATA AL CREPUSCOLO DEL SETTECENTO”, disponibile a Vieste in libreria ed edicole. Su AMAZON con disponibilità immediata: https://www.amazon.it/dp/1724167871/ref=cm_sw_r_fa_dp_U_3RBUBbG11RD78]
 
[1] AA.VV., I Cimaglia del 700 , Centro di Cultura «N. Cimaglia» di Vieste, Foggia 1991.
[2]  GIULIANI Vincenzo (Vieste 1734 – Vieste 1799), medico, studioso, fu l’autore delle Memorie storiche, politiche, ecclesiastiche della città di Vieste, pubblicate in prima edizione a Napoli nel 1768, prima e unica fonte sistematica e documentata delle antichità della città di Vieste.
[3]  T. NARDELLA, Natale Maria Cimaglia: un illuminista garganico tardo settecentesco, in appendice Apuliae, et Dauniae veteris geographia, San Marco in Lamis, QS, 2010; ora in Le Terre della Dogana: opere e saggi, a cura di Antonio Motta, San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 2011, p. 1243.
[4] Ibidem
[5] C. RENDINA, I Papi – Storia e segreti, vol. II, Roma, ed. Newton § Compton, 2005, pp. 731-732.
[6]  Ivi , p. 200.
[7]  P. SOCCIO,  I Cimaglia nel Settecento – I due volti del Gargano (erbe e uomini: realtà e simboli), in AA.VV., I Cimaglia del 700, Centro di Cultura «N. Cimaglia», Foggia, 1991, p.  18.
[8]  F. FIORENTINO, L’accademia degli eccitati viciensi nel 1700, in Gargano antico e nuovo, Manfredonia, Edizioni del  Golfo, 1989, pp. 31-34.
[9]  G. ALIOTA, Presentazione, in AA.VV. I Cimaglia del 700, cit., pp. 6-7.
[10]  P. SOCCIO,  I Cimaglia nel Settecento – I due volti del Gargano (erbe e uomini: realtà e simboli), in AA.VV., I Cimaglia del 700, cit., p. 29.
 

 

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Author: Michele Eugenio Di Carlo

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