Sono buonista e me ne vanto (di Marcello Colopi)

Lucido, provocatorio quel che basta a ridare ossigeno alla virtù vilipesa del libero pensiero, e del confronto aperto, fecondo. Oltre i pregiudizi che ci stanno avvelenando.
Ecco a voi la seconda riflessione di Marcello Colopi, sociologo, attore, regista, responsabile dello sportello immigrazione “Stefano Fumarulo” di  Cerignola e pPresidente della consulta delle politiche migratorie del comune di Cerignola. Se avete perso la prima, la trovate qui. Buona lettura. (g.i.)
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Spesso, in questo ultimo periodo mi dicono in tono offensivo: “tu sei il solito buonista”. Allora ho cercato di capire cosa significa ciò. Partendo dalla Treccani ho scoperto che buonista significa:  Ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversarî, o nei riguardi di un avversario.
Letto cosi non mi pare una grande offesa, ma (nella mia vita spesso inciampo nei ma) anche se l’eccezione della parola non è negativa  ha assunto progressivamente un significato sempre più negativo, fino a diventare sinonimo di opportunismo accomodante, esagerata e strumentale manifestazione  di buoni sentimenti sovente sconfessata da una condotta incoerente, esternazione vuota e superficiale da esibire in  ogni circostanza, espressione di mancanza di carattere.  Così è diventato un ideologico luogo comune:  praticamente un’ingiuria ed un’offesa, certo non un complimento.
Ecco ci sono arrivato. Il buonista è un opportunista. Noi che della solidarietà e  della socialità ne abbiamo fatto una scelta di vita (professionale ed umana) siamo degli opportunisti che ci nascondiamo dietro buoni sentimenti per fare i porci comodi nostri. Durante il fascismo (oggi tornato così di moda) gli attuali buonisti erano chiamati “pietisti”: ci si riferiva a coloro che in qualche modo avevano una umana pietà nei confronti degli ebrei. Quindi pietisti e buonisti sono della stessa specie. Ma (ancora un altro ma) oggi, chiunque provi a mostrare empatia nei confronti degli immigrati o a ritenere vergognose le dichiarazioni di alcuni nostri politici, viene definito buonista. Ovviamente il massimo dell’offesa è : “buonista radical chic “. Pochi giorni fa mi è arrivato questo insulto: “sei un buonista radical chic!”

Mi sono preoccupato perché ho capito di appartenere ad una indistinta categoria antropologica che va da Gino Strada a Veltroni passando per Babbo Natale. Il tutto nasce da un editoriale del ’95 di Ernesto Galli della Loggia che accusava la sinistra (sì, allora si diceva ancora sinistra) di non saper gestire l’immigrazione a causa del suo “buonismo” e “benaltrismo”.  Ma due copertine del Giornale  hanno dilatato il termine fino all’estremo. Si riferivano alle  stragi di migranti nel Mediterraneo.
La prima a Lampedusa nel 2013 (più di 300 morti), la seconda al largo della Libia nell’aprile del 2015 (oltre 700 morti). Il colpevole, ça va sans dire, è il solito “buonismo.” Il titolo era : 300 morti di buonismo, riferendosi nel 2013 alla tragedia avvenuta al largo di Lampedusa quando un barcone carico di migranti naufragò e per concludere nel 2015 quando in un’altra e più grande tragedia al largo della Libia persero la vita  700 persone. Il Giornale, manco a dirlo,  titolò : 700 morti di buonismo.
Nessun altro discorso da allora  è possibile: noi buonisti siamo il pericolo vivente di questa società. È colpa nostra se i migranti muoiono in mare o se dei ragazzi muoiono sulle strade perché sfruttati da caporali. La colpa è di questi “buonisti radical chic con il rolex d’oro” (cit. Giorgia Meloni).
Ovviamente non è così. Ma così appare.
Allora,  dobbiamo cambiare il senso semantico: si tratta di rovesciare il banco e de-costruire un linguaggio viziato per svelarne la fragilità, l’inconsistenza. Insomma: “rendere adulto il dibattito” ricorrendo al realismo politico. Per tornare su un tema che tiene banco da mesi: salvare vite umane in mare non è un capriccio “buonista” o un complotto ordito da “lobby buoniste” che vogliono lucrarci sopra; è l’assolvimento di obblighi internazionali, che in questo preciso momento storico si inseriscono in un quadro geopolitico complesso.
Se dei braccianti immigrati muoiono di lavoro la colpa è di chi li sfrutta e li rende schiavi. Lottare contro il caporalato è una lotta per la giustizia di tutti gli uomini che hanno diritto ad un salario giusto: altro che buonismo.
A dirla tutta, inizierei a rivendicare il termine definendo una chiara dimensione di appartenenza: i buonisti sono coloro che entrano in empatia con l’umanità.
Ecco, cercare di dare un senso di orgoglio di appartenenza alla “ categoria” buonista. Qualcuno ci sta provando : per esempio Umberto Mastropietro, un amministratore aziendale italiano che da trent’anni abita in Germania, ha iniziato a vendere in rete magliette personalizzate con la scritta “Buonista” oppure  “Non sono razzista ma prima gli italiani è come dire:  Non sono una merda sono prima di tutto stronzo” e cosi via. L’iniziativa, nata quasi per gioco, ha iniziato a crescere così tanto che Mastropasqua ha deciso di devolvere parte dei proventi ad Emergency . Ovviamente con il successo in rete sono arrivate a migliaia gli insulti e le minacce. 
È un modo per dire Basta. Non arrendersi  alla deriva culturale e politica del nostro paese. È un modo per dire: io non sono questa Italia che ha come valore positivo essere “un pezzo di merda” e come valore negativo “essere un buonista”. Per dire in parole brevi, ho capito che quando in una discussione compaiono i termini “buonismo” e “buonista,” allora quasi certamente sta per arrivare un’enorme stronzata da schivare a tutti i costi.
Marcello Colopi

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