Il Gargano tra ‘700 e ‘800: la Valle Carbonara e il suo prezioso grano (di Michele Eugenio Di Carlo)

La Valle Carbonara, in uno scatto di Dirk Bakowies
L’identità di un territorio, o se preferite il suo genius loci, è determinata da ciò che quella terra è stata nel passato, da ciò che ha fatto e prodotto, e che ha trasmesso. Ne fornisce una impareggiabile e molto efficace dimostrazione Michele Eugenio Di Carlo, che, per vocazione e inclinazione, quando parla delle produzioni agro-alimentari del Gargano, veramente riesce a dare il meglio di se stesso. Studioso, saggista, agronomo, “il racconto della terra e dei suoi prodotti” raggiunge in Di Carlo livelli veramente ragguardevoli. Ma anche particolarmente utili a leggere la realtà di oggi, a comprenderla meglio, e quindi ad immaginare il futuro con maggior consapevolezza.
Dalle prossime settimane, un pastificio artigianale di Monte Sant’Angelo, Casa Prencipe di Domenico Prencipe, metterà in produzione una linea di pasta esclusiva dal grano di valle Carbonara. Dietro questa coraggiosa scelta c’è una storia antica, che Michele ha ben pensato di raccontare. Gli sono grato per aver scelto Lettere Meridiane per la pubblicazione.
Dietro questa storia, ci sono tante altre possibili storie che potrebbero essere raccontare se il Mezzogiorno ritroverà, come sembra stia accadendo, l’orgoglio del suo genius loci
(g.i.)
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Ad est di San Giovanni Rotondo, oltrepassati il lago di S. Egidio, oggi prosciugato,  e l’altipiano di Campolato, sorgeva su un’altura Monte Sant’Angelo, circondata da «ripe, da balze, e da valloni»,  dove solo i montanari sapevano avventurarsi con destrezza, accompagnati dalla presenza alpestre dei corvi.
Monte S. Angelo era passata dai 146 fuochi del 1532 ai 556 del 1669 [1], alle 2508 anime indicate da Giovan Battista Pacichelli nel suo primo viaggio in Puglia del 1682 [2]. Agli inizi dell’Ottocento Manicone la trovava «talmente popolata» da contare 11.500, quindi la città più abitata del Gargano all’epoca [3].
Secondo la dettagliata relazione di Lorenzo Giustiniani, Monte S. Angelo produceva grano, legumi, vino, olio, carrube, oltre che miele, manna e pece [4].

Persino nei boschi di Monte S. Angelo, che si estendevano fino ai limiti della Foresta Umbra, si seminavano in coltura asciutta cavoli e broccoli che vegetavano anche solo grazie alla rugiada abbondante dei declini boscosi posti sulle alture del Gargano; rugiada e alture permettevano che il terriccio rimanesse umido nonostante i prolungati e frequenti periodi siccitosi. A Monte si coltivavano anche le tipiche essenze orticole, che all’impossibilità di irrigare e al basso regime pluviometrico sopperivano con l’umidità notturna e mattutina, tipica delle medie quote altimetriche garganiche. Anche nei boschi di Monte si era diffusa, seguendo l’esempio di San Marco, la coltivazione del granoturco. 
Il frate Michelangelo Manicone, visibilmente appagato, annotava che nel decantare le  benefiche virtù del granoturco aveva convinto un “galantuomo” a coltivarlo, imitato in seguito da altri paesani. 
A Monte i vigneti erano stati ovunque estirpati per favorire la produzione olearia. Anche nella contrada di “Matinata” le vigne, sommerse dal fango e dai detriti provenienti dal canalone di sbocco della valle Carbonara, erano state sostituite dagli oliveti. Essendo protetta dai venti boreali e posta in piano, a ridosso di un lungo arenile, la contrada di Mattinata produceva oltre ad un eccellente olio, carrube e frutta di vario genere [5].
Luigi Gatta, preparato storico locale, sostiene che nella prima parte dell’Ottocento nel villaggio di Mattinata l’attività agricola aveva mantenuto gli stessi sistemi di coltura. Pur essendo aumentate le porzioni di terra da coltivare a seguito delle «numerose usurpazioni effettuate nel Demanio e nelle Difese Comunali di Vota e Casiglia», che non avevano tuttavia aumentato più di tanto la produzione agricola [6]. 
Sempre secondo il Gatta, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dissodamenti abusivi e usurpazioni non avevano interessato i grandi boschi delle contrade di “Vergone del Lupo”, “Davanti”, “Finocchito” e “Spillacardillo”. Disboscamenti e relative “cesinazioni” con costruzioni di muri a secco, cisterne e pagliai abusivi, erano stati realizzati nelle vicinanze del nascente villaggio, nelle località “Copparosa”, “Paratina”, “Parco Mingarello”, “Don Leonardo”. Fenomeni insediativi che sicuramente determinarono un aumento della popolazione e lo sviluppo del primo nucleo abitato di Mattinata sulla collina del “Castelluccio” [7].
Un altro storico di Mattinata, Michele Tranasi, riporta in maniera dettagliata il tipo di coltivazioni presenti all’inizio dell’Ottocento nelle contrade Carbonara e Mattinata. E se si tengono in conto le affermazioni del Gatta sull’insignificante trasformazione del paesaggio agrario tra fine Settecento e primi decenni dell’Ottocento, diventa possibile ricostruire agevolmente il paesaggio agrario di questo lembo del Gargano. 
La strada che da valle Carbonara raggiungeva Monte era scoscesa, eppure i pellegrini e le carovane di muli che trasportavano in continuazione vino, agrumi e frutta, spesso da Vico del Gargano, dovevano necessariamente percorrerla. Manicone proponeva la costruzione di una comoda e larga strada con tornanti da valle Carbonara alla “Sacra Spelonca” passando per “Croci”. Nelle aree meno scoscese della valle di Carbonara erano presenti anche i cereali, tra i quali non poteva mancare il grano, soprattutto dopo la carestia del 1764 che aveva causato migliaia di vittime in tutta la  Capitanata e che, come spiega lo storico di  Monte S. Angelo Giuseppe Piemontese [8], aveva indotto i poveri braccianti ad un disboscamento selvaggio proprio per coltivare grano. La coltura prevalente lungo i pendii era il vigneto, impiantato lungo ingegnosi terrazzamenti che avevano la duplice funzione di permettere la coltivazione in piano e di conservare il terreno fertile, altrimenti destinato ad essere asportato dall’azione dilavante delle acque meteoriche.
La descrizione dello sbocco della valle Carbonara nella piana di Mattinata del meridionalista di Altamura, Tommaso Fiore, in “Terra di Puglia e di Basilicata”, pubblicata nel 1968, resta una delle testimonianze più limpide e toccanti di questa margine di territorio: 

«È qui che, penetrando nella zona di Mattinata ancora prima del bivio, ho ricevuto la rivelazione che nessuno mi avrebbe potuto fare, ho constato con i miei occhi quel che mai avrei creduto, me l’avessero detto in cento, il prodigio di un lavoro immenso, di un’opera paziente, senza limiti, forsennata, di un popolo di formiche, o di schiavi ostinati, e il sacrificio di generazioni di lavoratori. Oh, avevo ben conoscenza io, da gran tempo, di muretti a secco, specialmente nella dolce plaga tutta a collinette, a sud-est di Bari […] Ma qui non è più una collina, o non c’è più dolcezza; qui, salendo verso il bivio, ai due fianchi, su per la gran massa montuosa, aspra come qualche cocuzzolo che se ne stacca d’improvviso per la regolarità di cono, tutti gli aspetti intorno non sono che muri rustici, a secco, saldamente piantati per contenere appena un piccolo lembo di terra; e non dieci muretti, non venti, non cinquanta, ma a centinaia, a migliaia, senza numero…»[9].

La contrada di Mattinata, all’epoca non ancora Comune, era una delle aree più fertili del territorio di Monte Sant’Angelo. Era passata dalla proprietà delle badie di Pulsano e di Monte Sacro a quelle della Mensa Arcivescovile di Manfredonia, della Basilica di San Michele, dei monasteri delle Clarisse, dei Celestini e dei Carmelitani, per poi finire, prima e dopo la promulgazione delle leggi eversive del 1806, nel possesso esclusivo della borghesia agraria di Monte S. Angelo, che aveva allontanato forzosamente i poveri contadini e braccianti che avevano tentano di colonizzare quei terreni per ragioni di pura sussistenza. Tranasi elenca persino le famiglie agiate che grazie a quella «corsa alla terra» si strutturarono al vertice politico, economico e sociale della comunità di Monte S. Angelo e che, nel bene e nel male, avrebbero condizionato la vita cittadina nelle vicende legate al Risorgimento e al periodo post unitario: Gambadoro, Vischi, Rago, Torres, d’Angelantonio, Basso, d’Errico, Giordani, de Angelis, Prencipe, del Nobile, Cassa, Ciampoli, Capossela, Gelmini, Bisceglia, Azzarone, Amicarelli. 
Anche Tranasi conferma, nella piana di Mattinata, l’attività agricola volta alla produzione di cereali e, in misura minore, quella dedicata all’olivo e al mandorlo, segnalando anche in maniera rilevante la presenza di alberi fruttiferi quali fico, pesco, pero e melo [10]. 
Infatti, il Gargano non presentava il clima rigido del “Piano Cinque Miglia” [11] o del gelido “Monte Corno” [12], né il caldo estivo soffocante del Tavoliere [13]. Diversi erano gli indicatori naturali, definiti “termometri”, che dimostravano la dolcezza del clima garganico. Uno di questi era costituito dalle Graminacee, le cui spighe  nel Gargano maturavano tutte entro il mese di luglio dando ottimo grano e pregevoli “biade”, mentre nei climi rigidi del nord la fase di levata delle spighe avveniva in agosto o settembre, troppo tardi per ottenere una ideale maturazione prima del ritorno dei rigori invernali. 
Domenico Prencipe
La questione è ora tornata d’attualità, considerata la smisurata importazione di grano duro canadese in Italia per produrre pasta. Infatti, il grano canadese spesso non giunge a piena  maturazione e deve essere trattato chimicamente con  erbicidi al fine di  anticiparla. Una pratica vietata in Italia e che scatena una furibonda polemica che tocca sia l’aspetto salutare del grano importato, sia l’aspetto commerciale, in quando negli ultimi decenni ben 600 mila ettari di grano duro del Sud  sono stati abbandonati.
L’idea di Domenico Prencipe, titolare del pastificio artigianale Casa Prencipe di Monte S. Angelo, di produrre una linea di pasta dal grano di valle Carbonara ha una forte valenza storica e culturale e costituisce un modello imitabile di eccellenze giovanili che non lasciano il territorio e vincono la lotta contro la tentazione di emigrare da un’area in cui la disoccupazione giovanile ha superato il 50%.
Un’ultima curiosità che riguarda l’emigrazione prima del processo unitario e che inevitabilmente farà discutere e riflettere: il non dimenticato preside di Monte S. Angelo, Antonio Ciuffreda, nel riportare in un suo testo i dati della popolazione al 31 ottobre 1820 (12 mila anime), numera solo nove emigrati [14].

Michele Eugenio Di Carlo

NOTE
[1]  L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, tomo VI, Napoli, presso Vincenzo Manfredi, 1803, p. 133.
[2]  G. B. Pacichelli, Memorie dei viaggi per la Puglia (1682-1687), a cura di Eleonora Carriero, Edizioni digitali del CISVA, 2010, p. 6.

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[3]  M. Manicone, La Fisica Daunica , a cura di L. Lunetta e I. Damiani, parte II Gargano, cit., p.21.
[4]  L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, tomo VI, Napoli, presso V. Manfredi, 1803, p. 132.
[5]  Cfr. M. Manicone, La Fisica Daunica, parte II, cit., pp. 26-29.
[6]  Cfr. L. Gatta, Mattinata frazione di Monte Sant’Angelo tra ‘800 e ‘900, Vol. I, Foggia, Grenzi Editore, 1996, p. 62.
[7]  Cfr., ivi, p. 195.
[8]  G. Piemontese, I Grimaldi. Monte Sant’Angelo e il Gargano dalla feudalità all’unità d’Italia , Foggia, Bastogi, 2006, pp. 81-88.
[9]  T. Fiore, Terra di Puglia e di Basilicata, Cosenza, Pellegrini Editore, 1968; cit. tratta da L. Gatta, Mattinata frazione di Monte Sant’Angelo tra ‘800 e ‘900, cit., p. 208 nota 11.
[10]  M. Tranasi, Dalla proprietà comune alla proprietà privata – Monte Sant’Angelo 1806-1860, Foggia, Leone Editrice, 1994, pp. 111-113.
[11]  L’Altopiano delle Cinquemiglia, posto a circa 1250 metri s.l.m. nella bassa provincia dell’Aquila, è compreso nel territorio dei comuni di Roccaraso, Rivisondoli, Rocca Pia.
[12]  Per Monte Corno lo scienziato Manicone non intende nessuna delle vette delle Alpi così denominate, ma il Corno Grande posto nel massiccio del Gran Sasso e che ne costituisce la vetta più alta (metri 2914 s.l.m.).
[13]  Cfr. M. Manicone, La Fisica Appula, tomo V, libro VII, cit., pp. 5-8.
[14]  A. Ciuffreda, Uomini e fatti della montagna dell’Angelo, Foggia, Centro Studi Garganici, 1989, p. 356.





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Author: Michele Eugenio Di Carlo

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