Conosco poche persone attente alla memoria e alle risorse del nostro territorio come Michele Eugenio Di Carlo. Valorizzare l’una e le altre significa, in definitiva, raccontare ciò che il nostro territorio è stato, ed è, ma anche individuarne le prospettive di futuro. Soltanto così è possibile disegnare e sostenere un modello di sviluppo autopropulsivo. Non è cosa di poco conto, perché è proprio qui – ripartire dal passato per costruire il futuro – che il Mezzogiorno si gioca le sue possibilità di riscatto.
Ne è riprova questo stupendo articolo in cui Di Carlo racconta la storia affascinante di una delle eccellenze più antiche e più radicate della terra dauna, le pietre del Gargano e i marmi di Apricena e Poggio Imperiale.
Un invito a riscoprire la grandezza, la dignità, la peculiarità del nostro passato.
Buona lettura. (g.i.)
Nel ‘700, povero di pietre preziose, il Gargano dalla conformazione calcarea e dalla natura carsica presenta ancora rocce e pietre utili alle attività umane. Dagli accumuli di sabbie retrodunali utilizzate nelle malte cementizie e nella preparazione di intonaci alla pietra bianca e tenera di Monte Sant’Angelo, dalla quale si ottenevano i preziosi altari delle chiese e le artistiche statuette dell’Arcangelo Michele scolpite dalle mani esperte di abili scultori locali; dalla pietra dura e pesante per preparare la calce a quella “molare” utilizzata negli antichi frantoi per estrarre l’olio dalle olive; dalle selci taglienti che sin dal Neolitico venivano lavorate e commercializzate nell’intero Mediterraneo al tenero, e facilmente lavorabile, tufo con il quale si costruivano le case del Settecento; dai filoni di pietre stratificate utili per coprire i tetti delle case ai marmi di San Giovanni Rotondo, in località “Caldaroso”, e di Apricena, in località “San Giovanni in Piano”. Tra i marmi più pregiati, il frate cita quello denominato “breccia cicerchina”, un esemplare del quale si trovava nella prima camera del museo di Portici.
I giacimenti marmiferi di Apricena e Poggio Imperiale sui quali si era soffermato Michelangelo Manicone e dai quali si ricava la nota “Pietra di Apricena”, sono quasi interamente costituiti da una formazione geologica del Cretaceo inferiore con le apprezzate varietà biancone, filettato, Silva Bella, macchiettato, serpeggiante, bronzetto, appartenenti al complesso dei calcari varicolari e venati oolitici, subcristallini, compatti o lievemente cavernosi. La presenza di sacche di bauxite, intercalate tra i calcari, ha pesato negativamente nelle operazioni di estrazione dai giacimenti marmiferi.
La Pietra di Apricena era già largamente utilizzata nel Settecento. Infatti, l’ing. Filippo Paltrinieri di San Marco in Lamis, incaricato nel 1867 di eseguire “lavori topografici-statistici” sui marmi di Apricena e di Poggio Imperiale, rileva la presenza nell’Archivio della Provincia di Foggia di documenti degli anni 1754, 1756, 1760, 1762 attestanti l’interesse di Carlo di Borbone per «lo scavo e il trasporto di colonne ed altri pezzi di pietre marmoree per il servizio di S.M. dalle cave di Apricena e cava di Castelpagano».
Dagli “Annali Civili” del 1810 del Comune di Apricena e dalle informazioni contenute nel secondo tomo del Teatro storico di Capitanata del sanseverese Matteo Fraccareta, risulta che la “Pietra di Apricena” è già largamente impiegata agli inizi dell’Ottocento.
A destare l’interesse industriale sulle cave saranno gli studi del medico di San Marco in Lamis Leonardo Cera, tanto che con il Regio Rescritto del 17 luglio 1839 il ministro degli Affari Interni del Regno delle due Sicilie, Nicolò Santangelo, incarica l’esperto professore di mineralogia Leopoldo Pilla di verificare la valenza degli studi di Cera. Gli studi geologici del Pilla, il quale diventerà titolare della cattedra di geologia presso l’Università di Pisa, saranno trasmessi sotto forma di rapporto al Ministro e all’Intendente di Capitanata e conservati negli «Atti della Reale Società e Camera di Commercio di Foggia». In quel rapporto il prof. Pilla poneva l’attenzione anche su masse di marmo nelle vicinanze del Monastero di Stignano e l’esistenza di antiche cave nei pressi del Monastero di San Giovanni in Pane.
Campioni di marmi garganici furono inviati nel 1867 dalla Reale Società Economica di Capitanata alla Esposizione Universale di Parigi e da tale meritevole iniziativa nacque la «Società Anonima per l’estrazione, la lavorazione e l’esportazione dei Marmi e degli Alabastri della Capitanata» con sede in Firenze, il cui Comitato Fondatore diede incarico all’ing. Paltrinieri di eseguire ulteriori studi sui marmi del Gargano. La Società Anonima non ebbe vita lunga e le travolgenti volontà post unitarie di sfruttare industrialmente le cave di Apricena e di Poggio Imperiale, al fine di portare sviluppo, occupazione in una terra che ancora portava i segni della feroce guerra civile seguita al processo unitario, caddero nel vuoto. Un oblio dovuto a scelte di politica economica consapevolmente adottate dai governi liberali dei primi decenni dell’unità, dietro l’imposizione di una elitaria consorteria di militari e burocrati legati alla dinastia regnante dei Savoia, fermamente determinati a concentrare lo sviluppo industriale nelle regioni settentrionali del paese da poco unito.
Appare, allora, alquanto ingeneroso e affrettato il giudizio espresso dall’ing. Paltrinieri nel suo rapporto del 1867 al Comitato Fondatore della Società Anonima, quando scrive che «in Italia non vi è Accademia, non Riunione Scientifica che nelle loro adunanze non trattino di promuovere la industria e di migliorare le condizioni del bracciante, là dove la necessità più urge, attivando sistemi più economici e più atti a risvegliare l’industria operosa in tutti quei luoghi e provincie che presentano mezzi per impiegare la mano dell’uomo. Tali mezzi per l’inerzia del Governo Borbonico e dei Proprietari delle cave suindicate restarono abbandonati e trascurati, mentre un sicuro alimento e collocamento vi avrebbero trovato tanti e tanti miserabili braccianti che ora languiscono nella miseria, nell’emigrazione, nel vagabondaggio».
Un opinione avara anche alla luce di quanto lo stesso Paltrinieri aveva riportato sull’interesse di Carlo di Borbone e sugli studi del prof. Pilla finanziati per intervento del ministro Santangelo nel 1839. Tra l’altro, non poteva prevedere l’ing. Paltrinieri che la vera emigrazione sarebbe avvenuta alcuni decenni più tardi, quando la miseria più nera avrebbe spinto milioni di meridionali oltre oceano, verso le Americhe.
Peraltro, Matteo Fraccareta, nel secondo tomo del Teatro Storico del 1832, parla dei marmi del Gargano in questi termini: «Ha vene di marmo verde, e bianco, di tartaruga e bacchiglione mischio di nero, bianco, e fulvo di tartaruga, come scorgesi nella Chiesa della Croce in Apricena, nelle porte del nostro Monistero de’ PP. Celestini, nelle fontane della R. Villa dal 1820, piantate in foggia all’Est, ne’ R. Palagj di Napoli, Portici, e Caserta… »
Ed era stato lo stesso Fraccareta a precisare che i marmi per i palazzi reali di Napoli, Portici e Caserta erano stati prelevati dalle cave di San Giovanni in Piano, di Castelpagano e di Montegranaro e trasferiti su grandi carri a Manfredonia per essere infine imbarcati per la Capitale. L’ing. Pilla aveva appreso queste notizie dal Fraccareta e gli studi del Pilla erano fin troppo note all’ing. Paltrinieri.
Michele Eugenio Di Carlo
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