Perché Michele Serra ha ragione

Ha detto cose classiste, o di destra, Michele Serra, nella sua Amaca sul bullismo di qualche giorno fa, che tante polemiche sta suscitando?
Mi pare proprio di no. Nella stagione della post-politica e delle post-ideologie, in cui “non ci sono più destra e sinistra” (o non sarà, più semplicemente che la destra si è travestita da sinistra?), il ragionamento di Michele Serra è tra le cose più schiettamente di sinistra  che mi sia capitato di leggere negli ultimi tempi.
Perché è stato allora tanto largamente frainteso, travisato, incompreso? Non lo so.
Provo ad indovinare.
Forse perché era molto più lungo di un tweet e ormai, ahimè, la soglia d’attenzione dei lettori scende vertiginosamente dopo 280 caratteri?
Forse perché, in un certo senso, il buon Michele è stato tradito dal suo stesso incipit che preannunciava cose sgradevoli, che non sono state appunto gradite dai primi lettori di quell’Amaca, i cui commenti hanno influenzato nella solita reazione a catena tipicamente social, quelli successivi?
Più verosimilmente, perché ha cosparso di sale le ferite di quella sinistra populista e buonista che pensa che le classi non esistano più e che a cancellarle sia stata proprio la Scuola, depositaria delle sorti magnifiche e progressive dell’umanità.

Nella sua vituperata Amaca, lo scrittore polemista ha sostenuto che il bullismo è fenomeno più diffuso tra i ceti popolari, “per una ragione antica, per uno scandalo ancora intatto: il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di appartenenza.”
Michele Serra non esprime un’opinione. Cita un dato di fatto che soltanto gli struzzi e gli ipocriti possono fingere di non vedere.
Lo scandalo, semmai, sta nel non scandalizzarsi: non della tesi di Serra, ma che le cose stiano esattamente come dice lui.
L’Amaca affronta un tema – le differenze di classe, la cultura e la conoscenza come strumenti che le accentuano o le attenuano, a seconda di chi ne è detentore –  su cui si sono esercitati schiere di intellettuali, almeno in passato. Non è forse un caso che da tempo non se ne parli più.
Ben venga, dunque, la provocazione di Serra.
L’operaio conosce cento parole, il padrone mille, per questo è lui il padrone, intuì don Lorenzo Milani all’inizio degli anni Sessanta: per superare questo gap fondò la Scuola di Barbiana.
Qualche anno dopo Dario Fo, nel 1969, riprese l’intuizione del sacerdote che divideva il mondo in “diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro” portando sulle scene la commedia “L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone”.
Che la conoscenza fosse il vero e divisivo confine tra le classi l’aveva ben compreso già Peppino Di Vittorio, quando un giorno lontano che appartiene veramente ad un’altra epoca, passeggiando a Barletta aveva fatto, per la prima volta nella sua vita, conoscenza col vocabolario.
Diversamente da quanto è stato tramandato, non era più un bracciante analfabeta. Era già un dirigente sindacale di prestigio. Sapeva che dentro quel libro c’erano scritte tutte le parole del mondo e che soltanto conoscendole, in qualche modo appropriandosene, poteva sfidare veramente il padrone. Allora il grande sindacalista decise che doveva essere suo. Non aveva i soldi per comprarlo, e decise di vendersi la giacca. Un Pinocchio all’incontrario, insomma.
Un altro che aveva capito tutto è stato Umberto Eco, nel suo indimenticabile “Elogio del Franti” (il proto bullo del Cuore di De Amicis): nel saggio, Franti – proprio come il bullo tratteggiato da Serra – è “simbolo di un’Italia subalterna e umiliata, spinta fuorilegge dal perbenismo di classe”.
La questione è tutta qui. La questione è ancora qui.
Sono cambiate oggi le cose? Macché.
Quante parole conoscono l’operaio, il bracciante, il disoccupato, il proletario e quante il padrone? I ceti popolari continuano ad essere socialmente subalterni e culturalmente deboli, come sostiene Michele Serra, o possiamo dire che si siano affrancati?
Per quel che sento e vedo e respiro, temo che il divario sia diventato ancora più acuto e stridente. Solo che non si dice.
La differenza tra ieri e oggi sta nel ruolo dello Stato. Che ha da tempo abdicato al suo compito (art.3 della Costituzione) di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Oggi lo Stato se ne infischia (ce lo chiede l’Europa, con le sue spending review…) e limita la sua funzione all’aspetto (basti vedere come l’argomento del bullismo viene affrontato dai mass media) moralista e repressivo.
Della necessità che le classi subalterne lo siano un po’ meno, non importa più nulla a nessuno. O quasi.
La cultura si è ridotta a bene di consumo (di conseguenza viene consumata da chi può permetterselo) e non è più strumento di riscatto.
Basti pensare alla televisione di stato. Negli anni in cui don Lorenzo Milani portava avanti la sua scuola laboratorio a Barbiana, la trasmissione più seguita della Rai era “Non è mai troppo tardi”, che semplicemente insegnava agli italiani, a leggere e a scrivere.
Oggi, grazie anche a quella sinistra (o a quella destra travestita da sinistra?) che ha governato il Paese senza avere mai la voglia e il coraggio di riformare la Rai, di cambiare veramente lo stato delle cose, la televisione insegna a ballare con le stelle.
Cin cin.
Geppe Inserra

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Author: Geppe Inserra

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