Lesina-Sannicandro, una storia di conti, baroni e possidenti (di Matteo Vocale)

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Il Gargano, con Lesina e il “Golfo di Varano”
in un’antica carta

È appassionante come un romanzo, l’articolo saggio di Matteo Vocale sulla plurisecolare vertenza confinaria che oppone Lesina e Sannicandro Garganico, che Lettere Meridiane sta pubblicando a puntate.
Nella prima parte (che potete leggere cliccando qui), l’autore ha raccontato le origini medievali della controversia, quando Lesina era una potente Contea, e Sannicandro Garganico un suo suffeudo, fino al disastroso terremoto del 1627 che da un lato distrusse fisicamente parte dei titoli confinari, dall’altro impose ai paesi contendenti una pausa dovuta alle incombenze della ricostruzione.
Di seguito la seconda parte.

* * *

Nel frattempo, tutti i beni dell’orfanotrofio AGP (acronimo che sta per Casa Santa dell’Annunziata di Napoli – Ave Gratia Plena, n.d.c.) passano al Banco AGP, che dopo un primo periodo florido, finisce man mano per indebitarsi a causa dei continui prelievi del re di Napoli, Filippo IV d’Asburgo, per finanziare le sue guerre e per le reiterate truffe dei funzionari stessi del Banco. Nel 1717 l’istituto è dichiarato fallito dal Sacro Regio Consiglio e la sua proprietà, tra cui l’ex feudo di Lesina, pignorata a favore di una miriade di creditori. L’11 e 12 maggio 1729 i creditori del banco, insieme a regi consiglieri, agrimensori e  persone interessate di San Nicandro, eseguono nuovamente la titolazione su quella del 1622, con nuovi titoli laddove mancano o scolpendo la data 1729 su quelli già esistenti. Nello stesso anno, il regio ingegnere e tavolario, Donato Gallarano, esegue il primo dettagliato apprezzo dell’ex feudo di Lesina: una sorta di computo, utile a capire il valore del feudo e a quali norme e diritti fosse soggetto.

Pianta topografica dell’ex feudo Belvedere
in tenimento di Sannicandro come attualmente
si possiede da’ signori Zaccagnino

L’apprezzo, che si conserva tuttora nell’Archivio di Stato di Napoli e che fu pubblicato qualche anno fa dallo storico lesinese Antonio Fernando Lombardi, sembra confermare quanto stabilito nel 1622. Nel 1751, il Sacro Regio Consiglio decide così, conoscendone ora il valore, di mettere all’asta l’ex feudo di Lesina. Che, senza batter ciglio, viene acquistato da uno dei creditori del Banco AGP, il marchese Placido Imperiale, principe di Sant’Angelo dei Lombardi. Imperiale era un feudatario energico, intraprendente e molto determinato e che, a differenza dei precedenti signori del feudo, fece valere duramente i suoi diritti (esazione di decime e tributi) nei confronti dei lesinesi. Con l’intento di spremere al massimo la produttività del lago, applicò la “proibitiva”, una pretesa feudale che di fatto impediva gli usi civici ai lesinesi. Ne seguirono scontri e un susseguirsi di multe salatissime ai tantissimi lesinesi che continuavano a pescare abusivamente nel lago per trarne sostentamento. Così Imperiale, per distrarre quegli abitanti dall’uso della pesca, decide di votarli forzatamente all’agricoltura, con un’operazione che dapprima trovò lo scetticismo degli economisti di corte ma presto li fece ricredere: nel 1759 concede ad alcune famiglie del circondario, in qualità di coloni, case, animali, appezzamenti di terreno, masserizie e una porzione di bosco ai margini del feudo, dove inizierà la fondazione di quello che, il 18 gennaio 1816, diverrà il comune di Poggio Imperiale, volgarmente detto, appunto, Terranova. Naturalmente, Imperiale non fu docile tantomeno con i nicandresi, laddove continuavano a vantare diritti di pesca nel lago: ne seguirono ulteriori liti con il comune di San Nicandro, che successivamente, con la dominazione francese di Giuseppe Bonaparte e il passaggio del Regno di Napoli a Gioacchino Murat nel 1806, trovarono l’incidenza delle leggi eversive della feudalità: il feudo di Lesina (come quello di San Nicandro, fino ad allora appartenuto ai potentissimi Cattaneo della Volta Paleologo), perviene nelle mani della Commissione Feudale.
Nella demanializzazione delle terre feudali, si impone chiaramente il principio “ubi feuda, ibi demania” e cioè il riconoscimento degli antichi usi civici vantati dalle popolazioni locali, secondo innovative leggi che furono poi riprese nella Legge n. 1766/1927, tuttora vigente per la liquidazione degli usi civici. E dunque, ritorna energico il problema degli usi civici dei lesinesi contro il loro feudatario e di entrambi contro i nicandresi e, pertanto, continua l’eterno conflitto.
La Commissione Feudale, allora, trovandosi tra le mani la vertenza di lesinesi e nicandresi contro il principe Placido Imperiale, decide di attestarne il fine, emanando una storica sentenza il 13 giugno 1810, notificata alle parti con ordinanza dell’intendente di Capitanata Biase Zurlo: la sentenza sembra confermare quanto stabilito in precedenza (sentenza 1622 e seguenti), tanto che l’ingegnere Paolotti, dopo aver studiato le carte antiche e nel dare esecuzione della sentenza alla presenza del consigliere Tricarico, avrebbe dichiarato: “Dopo questi fatti, così chiari, e così decisi da due secoli, come mai può venire in mente al Principe Santangelo Imperiale il proibire ai Sannicandresi l’esercizio dei proprî dritti sul loro territorio bagnati dal Lago di Lesina?”. Ma il pronunciamento della Commissione Feudale resta teoria: nel momento in cui stabiliva l’abolizione della proibitiva per gli abitanti delle terre bagnate dal lago (quindi anche San Nicandro), trovò la conseguente opposizione del feudatario Imperiale, che godeva delle accondiscendenze dell’intendente Zurlo.
Il procuratore del re Winspeare, descritto come retto applicatore dei principi napoleonici e amico del popolo, sollecita più volte il ministro per l’abolizione delle multe comminate negli anni addietro da Imperiale ai lesinesi. Nel 1811 si arriva ad una ripartizione del lago tra il principe e i lesinesi, a cui ne fu destinata la terza parte e alla limitazione delle paranze di ognuno. Dopo pochi anni e a seguito della restaurazione dei Borbone nel 1815, Zurlo riesce a far passare una sua proposta: la parte di lago dei lesinesi viene data in affitto al principe Imperiale e, quando nel 1823 le acque del lago di Lesina sono dichiarate totalmente pubbliche da Ferdinando IV di Borbone, l’affitto assume i contorni di un’alienazione perpetua in favore del principe Imperiale. Lesina diventa una caserma, dove le guardie del principe fronteggiano ogni giorno gli ammutinamenti dei pescatori tra incidenti e omicidi. Nel frattempo, il Imperiale ostacola la creazione di nuove foci per favorire il ricambio delle acque e sbarra quelle esistenti. Lo sbarramento avveniva da settembre alla primavera, per evitare che il pesce uscisse dal lago; nei periodi di pioggia il lago, non avendo sfoghi, ingrossava al punto da allagare parte della città e il cimitero, tanto che spesso non si potevano seppellire i morti. Specie nei mesi estivi, la malaria finì per ridurre Lesina e i suoi abitanti in un villaggio di poveracci, con alta mortalità, arrivando ad infestare anche San Nicandro e le sue campagne.
Siamo negli anni ’20 dell’Ottocento e, a questo punto, si innesta nella vicenda un elemento nuovo e devastante: l’emergere rapido della borghesia terriera, che forte del potere politico, si accresce di più o meno opache occupazioni di terre demaniali, usando spesso la forza per imporsi, laddove non arrivasse il denaro corruttore presso le autorità. Saranno loro ad acquisire man mano i diritti sul lago dal principe Imperiale, divenendone praticamente i nuovi padroni. Nel nostro pantano tali sviluppi conoscono i nomi di alcune famiglie ma una su tutte sarà la più vorace: gli Zaccagnino, rappresentati da Vincenzo (nonno del benefattore omonimo) e suo figlio Matteo, entrambi deputati del regno e sindaci, a diverse riprese, di San Nicandro.
Gli Zaccagnino, come altre famiglie minori dell’aristocrazia terriera, sono presto i nuovi affittuari del lago, per cui pagano il dovuto al comune di Lesina. Gradualmente acquisiscono tutto il territorio dell’ex feudatario di Lesina, da Ripalta a Lauro e detengono la maggior parte del lago in affitto: la loro conduzione è quella del latifondo pre e post unitario e nei fatti, quindi, lo gestiscono come fossero i nuovi feudatari.
Il contenzioso prosegue. Nel 1834 il Consiglio di Stato, prendendo a fondamento sempre la sentenza del 1622 e confermando una precedente sentenza della Corte dei Conti, nega i diritti ai cives nicandresi sul territorio della laguna. Il 14 maggio 1851 il Decurionato di San Nicandro, sindaco Vincenzo Petrucci, approva una delibera (trascritta qualche anno fa dall’attuale bibliotecario civico Vincenzo Civitavecchia), con la quale si chiede al Capo della Provincia di “far trionfare la Giustizia” contro gli abusi che si commettono, nella porzione di paludi di proprietà di San Nicandro, da parte degli affittuari del lago a danno dei nicandresi che vi pascolano o conducono attività agricole e di pesca. Da questi fatti, traspare con clamorosa evidenza la convenienza per gli Zaccagnino che le paludi vantate dai sannicandresi vengano riconosciute a Lesina: ne potrebbero certificare il possesso in quanto affittuari, come lo sono del lago e neutralizzerebbero le pretese dei piccoli affittuari del demanio sannicandrese.
Qui, per la sponda sannicandrese del lago, inizia il periodo forse più turbolento e nebbioso della ormai secolare vertenza, poiché vi si innestano gli interessi economici di questa aristocrazia terriera, che si porterà dietro anche l’odio, oltre dei pescatori e del Brigantaggio post-unitario, anche delle classi operaie in genere, facendo del lago e delle paludi il teatro delle più aspre lotte di classe del Novecento in Capitanata, al punto da intingere le pescose acque del lago di sangue innocente. È, questo, anche il periodo storico in cui, parallelamente ai primi trattati di agricoltura scientifica e di opere di bonifica delle paludi editi dalle nostre parti e promossi proprio dall’aristocrazia terriera per incrementare resa e produzione, fioriscono rigogliosamente pubblicazioni sugli usi civici del lago da parte dei lesinesi e, di converso, sulla vertenza. Pertanto, non ci si deve meravigliare o, peggio, scandalizzare se ad una più accurata lettura di alcuni di questi libri e opuscoli o, meglio, al loro confronto con le carte antiche originali, alcune delle quali ancora inedite, ci dovessimo un giorno accorgere che essi citano i documenti antichi interpretandoli soggettivamente, nel migliore dei casi, ovvero operando addirittura interpolazioni maliziosamente funzionali agli interessi di potere dei latifondisti.

Matteo Vocale
(2.continua)
La prima parte è stata pubblicata il 27 aprile scorso, con il titolo Il racconto della lite più antica d’Italia.

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Author: Geppe Inserra

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