Il racconto della lite più lunga e antica d’Italia (di Matteo Vocale)

La storia è sempre appassionante. Ma lo è ancora di più quando tocca la vita quotidiana delle persone comuni. È il caso delle mille storie raccontate dagli “usi civici” e dalle loro diverse declinazioni, lungo il corso dei secoli.
Pochi lo sanno, ma la provincia di Foggia vanta in tema di “usi civici” una delle più antiche e controverse vicende. È quella che per secoli ha contrapposto i comuni di Lesina e di Sannicandro Garganico e che ha dirette conseguenze non soltanto sugli usi e i costumi delle popolazioni, ma sui confini amministrativi dei Comuni che vi sono interessati.
È una storia appassionante, pur se un tantino complessa, che Matteo Vocale, studioso ed appassionato di storia locale e del tema particolare degli usi civici, racconta a Lettere Meridiane con efficace sintesi (per come può essere sintetica una plurisecolare vicenda…) e con un taglio divulgativo, che rende la narrazione affascinante e coinvolgente.
Non vi sembri questione da addetti ai lavori: anzi, leggete con attenzione il racconto che dà il senso esatto di come la storia determini il corso degli eventi e spesso anche i destini delle persone.
La pubblichiamo a puntate, a partire da oggi. Al termine riuniremo le diverse puntate in una sola pubblicazione digitale. Ringraziando Matteo Vocale per il suo interessante e squisito contributo, auguriamo buona lettura.

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La vertenza sugli usi civici tra Lesina e San Nicandro:
racconto del contenzioso intercomunale più lungo e antico d’Italia

Nei titoli di giornale degli ultimi giorni, riecheggia il verdetto finale su una storica controversia che, secondo alcuni, sarebbe la più antica vertenza confinaria in Italia tra due comuni: quella per la definizione degli usi civici e, solo di conseguenza, dei confini tra i comuni di Lesina e San Nicandro Garganico.

Proviamo a spiegarne la lunghissima storia, in modo un po’ romanzato e, dunque, senza pretesa scientifica alcuna, così da rendere agevole la lettura e la conoscenza dei fatti ai più, prendendo le fonti  attualmente a disposizione (invero di numero parziale rispetto quelle esistenti) e il filo logico che ha portato alla definizione della vicenda, qualche giorno fa, dopo secoli di infinite carte giudiziarie.
Occorre però partire da un concetto, quello degli usi civici. Si tratta dei diritti primitivi di una popolazione su un territorio, che consentono di sfruttarne le risorse (legna, pascolo, pesca, ecc.) al fine di trarne il sostentamento funzionale alla nascita e alla vita di quella comunità umana.
Ora, la storia dei rapporti tra Lesina e San Nicandro si perde nei meandri del Medioevo, quando sappiamo dai documenti dell’epoca che Lesina era una potente contea composta di più feudi, di antica derivazione bizantina, come lo era anche Devia; mentre San Nicandro era un suo suffeudo, cioè soggetto a giurisdizione baronale, che dal conte dipendeva. Sin dall’epoca longobarda (VII sec. d.C.), quando assurge a sede vescovile, Lesina diverrà gradualmente e per lungo tempo la più importante contea delle complessive trentaquattro del ducato di Benevento.
È da dire, perciò, che i diritti di uso civico sul lago di Lesina, città di fondazione pre-romana e addirittura protostorica, devono essere antichissimi, come probabilmente lo erano quelli di altri piccoli insediamenti che costellavano il lago (ad es. Sant’Annea, Caldoli, Porto di Vico ma anche Maletta, solo per citare quelli nell’attuale territorio sannicandrese), oltre a tutte le celle cenobitiche e monastiche. San Nicandro nasce soltanto poco prima dell’anno Mille: con i Normanni era ancora un castrum, cioè un luogo fortificato presidiato maggiormente da soldati.
La parte di lago vantata dai “Nicandrenses”, gli abitanti di San Nicandro, cioè quella corrispondente all’attuale Sacca Orientale, dal fiume Sagri al Caldoli (S. Nazario), che poi è il vero fulcro del secolare  contenzioso, sin dal VII-VIII secolo era appannaggio dei Benedettini cassinesi, casauriensi, beneventani e volturnesi e viene inglobata nei possedimenti della diocesi di Lucera probabilmente dopo il Mille. Nei documenti feudali dell’alto Medioevo, i possedimenti di Lesina vengono citati sempre insieme al fiume Lauro e alla foce di San Focato (c.d. Focicchia), come se questi ne fossero i limiti e oltre di essi fosse tutt’altra giurisdizione. Tant’è, che poche miglia più ad est esisteva già Devia, con la sua contea. San Nicandro, quindi, fu fondata più tardi, non solo in mezzo alla probabile linea di confine tra le due contee di Lesina e Devia ma, cosa più importante, nacque evidentemente dal graduale abbandono dei citati agglomerati antichi che del lago sicuramente si servivano e, successivamente, anche dall’abbandono di Devia stessa. Con tutta probabilità è qui, a cavallo dell’anno Mille, che si annidano i motivi – ad oggi ignoti per lacune documentali – delle pretese di Lesina su tutto il lago e le sue paludi, come se le antiche comunità più a est, abbandonando i siti originari prope lacum per addentrarsi in San Nicandro e altrove, avessero perso, almeno dal punto di vista lesinese, lo ius piscandi.
Dai documenti dell’epoca angioina, comunque, si sa che anche i Nicandresi esercitavano, di diritto o meno che fosse, usi civici sul lago, in particolare il diritto di pesca, essendo il lago sin dai tempi più antichi la più grande risorsa dell’Apulia, tale da esportare pesce, anguille e cacciagione fino a Montecassino (i monaci avevano delle peschiere sul lago), a Napoli (capitale del Regno), a Benevento (diocesi di cui Lesina era suffraganea), addirittura a Firenze, in epoca più recente.
Già intorno al 1302, Raimondo Berengario d’Angiò ordinò al suo vicario in Puglia di stabilire, sentite le parti, se agli abitanti di San Nicandro “spectet ius piscationis in Pantano Lesinae”. Nel 1382 la regina Margherita di Durazzo ebbe in dono il feudo di Lesina, fino ad allora facente parte del demanio regio, come dote per sposare il re Carlo III d’Angiò. Graziata poi da un’epidemia di peste (dichiarò, per intervento della Madonna), Margherita decide di donare tutto il feudo di Lesina alla Casa Santa dell’Annunziata di Napoli A.G.P. (Ave Gratia Plena), un potentissimo istituto religioso. L’atto fu rogato il 6 novembre 1411: è la data convenzionale a cui si fa risalire il più antico contenzioso intercomunale che la storia d’Italia ricordi. Ma, come detto, sappiamo che le controversie risalgono a già molto prima e proseguiranno nei secoli a dar ragione, alternativamente e spesso a seconda delle influenze politiche, a Lesina, ai suoi feudatari e all’Universitas di San Nicandro.
Appena in possesso del feudo, l’A.G.P. vietò agli abitanti di San Nicandro gli usi civici sul lago e sulle paludi circostanti, verosimilmente anche a seguito della nuova suddivisione del territorio di Capitanata in locazioni, operata da Alfonso I d’Aragona con l’istituzione della Dogana delle Pecore nel 1447. Ne scaturisce un primo processo in seno al Sacro Regio Consiglio, che nel 1465 dispone i confini tra i due comuni e, quindi, di chi fossero i diritti sul lago. Evidentemente, la conclusione conferma l’esclusione dei nicandresi dagli usi civici sul lago, tanto che la questione tiene ancora banco e già nel 1502 si ascrive una ennesima “lite de’ confini tra l’Annunziata, il principe coll’università di S. Nicandro e il Regio Tavoliere nella Real Camera”; ricorso ripetuto dall’AGP nel 1539 presso il Sacro Regio Consiglio, lamentando che il feudatario ed i cittadini di San Nicandro avessero in continuazione turbato il pacifico godimento del feudo, bosco e lago di Lesina. Il Commissario della causa con decreto provvisorio del 18 ottobre 1546 prescrive che, pendente la lite, gli abitanti di San Nicandro dovevano astenersi dall’esercitare i diritti di pesca sul lago, per tutta la sua estensione fino al territorio di San Nicandro.
Si arriva così al 1597/98, quando il tavolario (tecnico che redigeva mappe accurate) Zuccaretti, nell’eseguire la sua perizia su incarico del Sacro Regio Consiglio, stabilisce un aspetto molto importante: il perimetro del lago è di 40 miglia, 30 delle quali appartengono a Lesina, le restanti 10, poste sulla sponda sudorientale del lago, appartengono a San Nicandro. Nella mappa tracciata da Zuccaretti vengono posti dei punti di riferimento: 1. S. Nazario, 2. procedendo verso est, il fiume Sagri, 3. sopra “un arbore antico segnato coll’arme delli padroni passati di detta terra [San Nicandro], che non si potette vedere per le canne folte e pantano” (in altri documenti, tale albero è detto “oliva cruciata”), 4. la foce (Sant’Andrea).
All’epoca, l’estensione acquitrinosa delle paludi che circondavano il lago era assai maggiore di quella odierna: le “paglie“, i canneti e i cutini d’acqua si estendevano fino quasi all’attuale SP 40 Lesina – Piana di Sagri (c.d. via vecchia di Lesina che giunge a Matilde). Su quegli acquitrini (corrispondenti, quindi, all’attuale Sacca Orientale) i nicandresi, da tempo immemore esercitavano, di diritto o meno che fosse, i loro discussi usi civici, pescandovi pesci, anguille e sanguisughe, ricavandovi i giunchi e pascolandovi gli animali.
Le conclusioni di Zuccaretti, dunque, assegnando addirittura un quarto delle sponde del lago a San Nicandro, furono accolte di buon grado di nicandresi, perché oltre a ristabilire il diritto su quella fascia di terra paludosa di 10 miglia, davano sbocco diretto al comune di San Nicandro sul lago e, di conseguenza, ammettevano implicitamente il diritto di uso civico anche su di esso, nonostante la proprietà del lago fosse confermata tutta all’A.G.P. Di fatto, secondo il diritto antico nessun feudatario, benché proprietario di un territorio, poteva negare gli usi civici agli abitanti del feudo. Almeno in teoria: questo, in verità, è il più grande problema che afflisse a loro volta i lesinesi nei rapporti con i loro feudatari circa i diritti di pesca.
L’AGP, perciò, impugna queste conclusioni e, a seguito di un ennesimo contenzioso, il Sacro Regio Consiglio emette una nuova, importantissima sentenza il 14 maggio 1622: vi si legge che Lesina e l’AGP restano proprietari di tutto l’ex feudo e dell’intero lago, come ordinato anche nelle precedenti sentenze del 1597/98, ma vi si spiega più volte che tale possesso, dominio, e proprietà si doveva estendere “usque ad viam qua itur ad terram Rhodi, et proprie usque ad locum ubi est spina sancta”: la via che “va a Rodi” è la citata attuale SP 40, mentre il luogo “della spina santa” (cosi denominato perché doveva esservi un grande cespuglio di Spina Christi) corrisponde alla localizzazione dell’attuale Lido Centrale (ancora oggi gli anziani chiamano quel tratto di spiaggia “Spina Santa”). Tra il 1622 e il 1625, i regi compassatori Ragonesi e Maggiorella, assistiti dal consigliere regio De Piccolellis e da altri appartenenti al Regio Consiglio, recatisi tutti sul posto, eseguono la titolazione dei confini secondo tale sentenza, installando dei termini lapidei (cosiddetti titoli) nel tratto da Spina Santa fino alle paludi di Lauro, non perdendo mai di vista l’antica strada di Rodi e specificando nel rapporto che tutti i titoli, tranne i primi tre, sono posti sul terreno appartenente a San Nicandro a causa dell’impraticabilità della parte paludosa e limacciosa: cioè vengono messi più o meno spostati rispetto a dove spetterebbe, a causa del terreno inconsistente delle paludi. L’ultimo titolo in pietra fu infisso al molino di Lauro: da li fino al “fiume Apri e taverna di Caldola” (sotto Posta S. Nazario) il confine era costituito dal limite delle paludi stesse “conforme vanno le paglie e cannucce”, cioè fino al taglio del lago. Nelle stesse sentenze 1622 e 1625 si prescrive anche la rimozione e distruzione delle paranze esistenti nel Lago “extra os fluminis Sacri”, cioè fuori l’imboccatura del fiume Sagri, mentre non si menzionano quelle all’interno dell’imboccatura e lungo il fiume stesso, facendo desumere implicitamente che nella zona del del Sagri, il confine fosse proprio il lago stesso, e così fino al fiume Apri lungo le famose dieci miglia di sponda del lago.
Stiamo parlando di una linea di confine che partendo dal fiume S. Nazario giungeva fin nell’attuale riserva naturale, ma su una sponda del lago che, naturalmente, non poteva essere quella odierna, giacché le paludi all’epoca erano assai più estese proprio nella parte orientale, giungendo fin quasi alla “strada che mena a Rodi” (SP 40), proseguendo verso Spina Santa. Il primo titolo, quello di Spina Santa, riconoscibile dallo scudo coronato con la scritta AGP e la data 1622, è ancora oggi visibile, dopo un fortuito ritrovamento a fine anni ’90 in occasione di uno scavo e si trova nel recinto dell’ex ristorante “Il Gabbiano”. Un altro, da me visionato ancora qualche giorno fa (probabilmente il decimo dei dodici titoli installati nel 1622), si trova in agro sannicandrese, poco distante dalla SP 40, in località Lauro, coricato al limite di un canale sul fondo Giuliani.
Si capisce come la questione delle dieci miglia di sponda del lago vantate dai nicandresi sia fondamentale in questa lunga storia, perché è il motivo reale del contenzioso. E la titolazione del 1622, proprio per essere in quel lungo tratto condizionata “dai capricci del lago” (a seconda del livello delle acque) e dalla conseguente variabile dei titoli messi sulla terra ferma, probabilmente si presta ad interpretazioni che, soggettivamente parlando, soddisfano le due universitas di Lesina e San Nicandro.
Il 30 luglio del 1627 è il giorno tremendo del grande terremoto, che genera un maremoto tale da far ritirare prima e poi esondare le acque del lago che, secondo le cronache, invasero per due miglia le campagne di San Nicandro: probabilmente alcuni dei titoli vengono spazzati via. Il territorio e le città di San Nicandro e, soprattutto, Lesina, devono fare ora i conti con la ricostruzione, rimandando le questioni confinarie di molti decenni.
1. continua
Matteo Vocale

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Author: Geppe Inserra

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