Via Lanza ha quasi ultimato il maquillage disposto dall’amministrazione comunale, e la cittadinanza non ha mancato di affollarla, in questi primi giorni di caldo. Voglia di passeggiare per il centro, ma anche di visitare la nuova via Lanza, per esprimere un giudizio sui lavori in generale e sulle panchine (installate sia su via Lanza che in piazza Giordano) che stanno suscitando qualche discussione sia per i materiali utilizzati (la seduta è di legno e qualcuno ironizzando ha detto che ricordano i sedili dei treni pendolari di seconda classe di una volta) sia per l’orientamento, perpendicolare e non parallelo come il resto delle panchine che adornano la piazza.
Quel che è certo (ed apprezzabile) è che i lavori di riqualificazione hanno restituito a via Lanza e a piazza Giordano la prospettiva e la profondità che avevano perduto, come dimostra l’antica foto che illustra questo post, scattata nel 1937.
Certo, non è possibile ridare alla piazza tutto lo splendore che aveva prima che venisse costruito il Palazzo degli Uffici Statali, che con la sua mole oggi comprime parte della visuale. Ma la riqualificazione ha restituito almeno in parte la bella prospettiva, e si spiega forse così anche la scelta dei progettisti, di orientare le panchine proprio in modo da guardare la piazza nella sua lunghezza.
La foto è stata scattata quando la piazza si chiamava ancora piazza Lanza, e al posto dell’ingombrante Palazzo degli Uffici c’erano la Chiesa di San Ciro e l’Istituto Maria Cristina. La pubblichiamo, sia nella versione originale in bianco e nero che in versione colorizzata.
La colorizzazione è stata effettuata utilizzando la tecnica di intelligenza artificiale “profonda” di Satoshi Iizuka, Edgar Simo-Serra e Hiroshi Ishikawa (Let there be Color!: Joint End-to-end Learning of Global and Local Image Priors for Automatic Image Colorization with Simultaneous Classification).
Sembra di poter dire che la piazza riqualificata somiglia un po’ di più a quella di un tempo. E voi, che ne pensate?
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Nel ringraziare Geppe per le sue sollecitazioni alle riflessioni sulla cronaca cittadina, tenendo d'occhio la nostra storia, vorrei contribuire con qualche pensiero.
Sulla storia urbanistica e architettonica di Foggia, invito ad osservare quanto ci propone la vista della foto qui pubblicata. Si nota un’armonica continuità tra il pronao dei giardini pubblici, la chiesa di Santa Maria della Croce (non San Ciro) e l’orfanotrofio Maria Cristina, tutti dotati di colonnato dorico.
Lo stesso colonnato il progettista Luigi Oberty lo propose anche per la chiesa di San Francesco Saverio ed il Real teatro, e fu il principale simbolo della rinascita della città dagli anni 20 ai 40 dell’800.
Il colonnato del teatro fu trasformato poi in muratura per rafforzarne la struttura, quelli di S M della Croce e dell’orfanotrofio abbattuti nel 1936-37 per la costruzione degli uffici statali, dando un duro colpo al paesaggio storico urbano.
Per la distruzione degli edifici storici si ricordano spesso e giustamente il terremoto del 1731 ed i bombardamenti del 1943, bisognerebbe però ricordare anche il fascismo e la speculazione edilizia degli anni più recenti.
Per quanto concerne le opere in corso in via Lanza e piazza Giordano, la prima domanda che mi pongo è se, a fronte delle tante necessità della città, l’impegno economico profuso per esse non potesse essere destinato altrove, con maggiore profitto collettivo.
E mi assale il dubbio che a prevalere sia stata la smania di lasciare un segno evidente e duraturo per una amministrazione che, finora, non si è distinta particolarmente bene.
La scelta dei materiali, poi, mi lascia perplesso. La pietra bianca, impiegata per la pavimentazione, non mi pare una scelta confacente al paesaggio urbano foggiano.
È un elemento estraneo, in così larga scala, e rende l’intera zona abbagliante sotto i raggi del sole.
Non ho ancora avuto modo di osservare il nuovo arredo urbano, mi riprometto di aggiungere, semmai, altre osservazioni.
Allego una foto presa da un volume di recente pubblicazione sull’orfanotrofio scomparso, che dà bene l’idea dell’imponenza dell’edificio ormai perduto. Non ne rimase nulla, il regime non ebbe nessuna remora a distruggere tutto.