Il 28 aprile 1898 Foggia fu teatro di una clamorosa rivolta popolare che anticipò, anche se in termini meno cruenti, quanto sarebbe successo a Milano di lì a poco. A Foggia i moti del pane ebbero luogo a fine aprile, Milano si incendiò dal 6 al 9 maggio, con l’insurrezione della popolazione affamata, e la durissima repressione dall’esercito guidato dal generale Bava Beccaris, che usando i cannoni fece fuoco sui rivoltosi, uccidendone a centinaia (le stime oscillano tra 88 e trecento vittime).
Diversamente da quanto sarebbe accaduto nel 1905, durante lo sciopero dei ferrovieri, e nel 1946 con la manifestazione contro i contrabbandieri, quella volta non ci furono morti, ma la rivolta lasciò insanabili ferite nel tessuto civile e culturale della città. Durante la sommossa venne dato fuoco al Municipio e le fiamme distrussero l’archivio comunale e con esso la memoria storica della città.
La fotografia che illustra il post è stata scattata all’indomani di quegli eventi, e mostra i muri esterni del Municipio (che allora sorgeva alla fine di via Arpi) ancora anneriti dal fumo.
A muovere le masse, a Foggia, come a Milano, come nelle altre città pugliesi e meridionali che si sollevarono fu la fame. Non a caso, Napoleone Colajanni definì i moti milanesi “la protesta dello stomaco”.
Il prezzo del pane aveva subito un sensibile rincaro a causa dello scarso raccolto e del rialzo del costo dei cereali di importazione provocato dalla guerra ispanico-statunitense. I bassi salari e la dilagante disoccupazione avevano fatto il resto.
Protagoniste della sommossa foggiana furono le donne, e forse anche per questo la reazione delle forze dell’ordine non fu feroce come di lì a poco sarebbe accaduto a Milano (ma anche a Napoli e a Firenze, dove sarebbe stato proclamato lo stato d’assedio). Ma la reazione blanda della forza pubblica, non mancò di suscitare roventi polemiche nei giorni successivi.
A Foggia la situazione era perfino peggiore, rispetto al resto del Paese, per una gravissima siccità. Non pioveva, e i proprietari dei terreni non potevano dare lavoro ai braccianti, così che alla fame ed alla miseria si aggiungeva la disoccupazione.
La situazione è così descritta dall’inviato speciale del Corriere della Sera, che il 1° maggio firma da Foggia un dettagliato reportage sui fatti di qualche giorno prima: “Ancora due, tre, forse quattro giorni, e se la pioggia, verrà a rianimare queste feraci terre, rinverdiranno le messi; ma se il bel cielo d’Italia che non è in facoltà del governo di oscurare, continuerà ad essere, qui, tanto bello, non si salverà nulla; il grano sparirà, arso in erba dal sole, e sugli steli ingialliti bisognerà passare l’aratro. Così i proprietari, misurando ad occhio o croce, rimetteranno il prodotto lordo, le spese essendo già state fatte, di centomila ettari; la bazzecola di 50 milioni! Ed i contadini? Si rinnoveranno gli orrori della miseria del 1888 — fatale ricorso di decennio! — e, data la conturbazione generale dello spirito pubblico, non si sa cosa potrà accadere.”
Il Comune, guidato dal sindaco Perrone aveva cercato di intervenire calmierando il prezzo del pane nonostante si trovasse (corsi e ricorsi della storia) alle prese con una critica situazione finanziaria, con un disavanzo di cassa di 900.000 lire. Ma il prezzo massimo fissato, 34 contesimi al chilo, era comunque alto e il pane di granone e crusca, venduto a 24 centesimi, era buono sì, ma per i cani, come sagacemente annota il cronista.
La situazione non era critica soltanto a Foggia, ma un po’ in tutta la provincia, e c’erano manifestazioni anche di natura religiosa per invocare la pioggia, come la clamorosa processione alla rovescia di Orta Nova dove il giorno del primo maggio, tutte le statue dei santi erano state chiuse in una stalla, “per castigarli della siccità”.
Ma veniamo al racconto dell’inviato del quotidiano milanese (che si firma solo con le iniziali, O.R.) che ricostruisce i fatti così come li ha raccolti dalle autorità, mettendo in evidenza situazioni surreali, se non proprio paradossali, come il ritardato arrivo delle truppe, impegnate… a consumare il rancio.
Alle otto del mattino — sia pure improvvisamente — una turba di due o trecento donne, venute dai borghi, dove in uno strano miscuglio di bestie ad uomini, abita la popolazione campestre si mettono a rumoreggiare davanti alla Prefettura: passa un cascherino (il garzone del fornaio preposto alla consegna del pane a domicilio, n.d.r.) e gli si toglie il pane.
L’ufficio di P. S. è a pian terreno, ma non si pensa a chiudere il portone; quindi alle nove la folla sale col Sindaco — che aveva cercato di calmarla — alla Prefettura e va a tumultuare fino nell’anticamera del Prefetto.
Il Prefetto con ordine scritto manda a chiamare la truppa; ma a Foggia per comandare i 400 uomini di guarnigione, dei quali in questo mese 200 sono reclute, si tengono due colonnelli: uno, il più anziano, comanda il distretto, l’altro il presidio; quindi si deve mandare l’ordine al comandante del distretto, il quale lo trasmette al collega, perché disponga delle forze del presidio uniformemente alla richiesta.
Al presidio l’ordine arriva mentre si sta cuocendo il rancio, e pare che questa importante operazione non si potesse tralasciare.
Fatto sta che la truppa — che si poteva benissimo nutrire con la carne in conserva che ogni soldato ha nello zaino — arriva alla Prefettura alle 11 e mezzo, quando la folla, che per fortuna non ha pensato di defenestrare il prefetto, è già molto eccitata, non foss’altro che per naturale autosuggestione, e più non cede nemmeno alle baionette che per evitare spargimento di sangue è necessario rinfoderare.
Comunque si arriva a sgomberare il palazzo della provincia; sulla piazza non vi sono più sole donne; dietro esse stanno in attitudine minacciosa anche gli uomini.
Scoppia il grido: al dazio! al dazio! il cui ufficio era al Municipio; vi si arriva — scortati dalla truppa — lo si incendia — dicesi con fiaccole di resina ed acqua ragia — distruggendo contemporaneamente le pompe e vuotando le riserve d’acqua; si devastano i magazzini di deposito, spaccando con gioia feroce le botti del vino per vederne correre i rigagnoli rossi sul piano delle fosse; brucia in un grande falò il prezioso archivio comunale che era l’orgoglio di Foggia contenendo i documenti di 10 secoli di storia, sì che questo sindaco, in un impeto di malinconia, mi diceva: “Non abbiamo più storia”.
Crolla parte dell’edifìcio; la popolazione assaltante urla selvaggiamente; lo donne come briache di entusiastico furore fanno fantasia all’uso abissino attorno al fabbricato incendiato, e la truppa, che ha seguito la dimostrazione al comando di un capitano, assiste impassibile coll’arma al piede, mentre i socialisti arrivano in plotone serrato e si mettono a disposizione dell’autorità per domare l’incendio o ristabilire la calma.
A chi lo eccitava ad intervenire, il capitano rispondeva che voleva ordini scritti ; si corre dal prefetto, il quale manda a chiamare il colonnello comandante e gli ordina di andare a vedere cosa passa per la testa a quel capitano.
Intanto tutto era distrutto; e dopo quattro ore di sfoghi contro il Municipio i dimostranti si dividono in gruppi e vanno a dare l’assalto ai forni e magazzini di grano, per poi gettare il pane sui tetti delle case, le farine nei fossati.
Dopo quattro ore si andò ai forni….
Dunque il tumulto non era provocato solo dalla fame; dunque non era unicamente il bisogno della conquista di un pane che spingeva i dimostranti, giacché ciò avrebbe prevenuto ogni altra opera distruggitrice? Qualche spinta diversa, qualche ragion; occulta, non deve esistere ?
Traspare evidente, dalle parole dell’inviato del Corriere della Sera, la critica alle autorità, accusate di non essere intervenute con la necessaria energia e tempestività. E con esse al Governo: “Giorni or sono un prefetto del Regno – scrive ancora l’inviato, così definiva la situazione: confusionismo; nessuno sa più quello che deve fare.”
L’articolo è datato 1° maggio e viene pubblicato sul numero del quotidiano milanese, in edicola il 4-5 maggio. Il giorno dopo, a Milano, il governo scoprirà improvvisamente “quello che deve fare” ordinando al generale Bava Beccaris di sparare sulla folla.
La repressione sarà dura anche a Foggia e in Capitanata. Nel capoluogo verrà chiusa la Lega dei Ferrovieri, prima forma di organizzazione sindacale cittadina.
84 persone vengono accusate di saccheggio e processate davanti al Tribunale di Lucera, altre 52 vengono imputate di reati più gravi e processate dalla Corte di Assise.
Le pene comminate dal Tribunale lucerino furono piuttosto miti: da 15 giorni a 28 mesi. Si registrarono anche alcune assoluzioni.
Andrà peggio invece a 55 donne di Montesantangelo, che avevano saccheggiato un deposito di grano nella cittadina garganica. Le imputate si difesero durante il processo sostenendo di ave agito in stato di necessità: “da diversi giorni erano digiune, mancava il pane e i loro figli avevano fame.” Vennero condannate a pene variabili da dieci mesi e a tre anni di reclusione.
Come spesso accade in questi casi, i fatti del 28 aprile suscitarono roventi polemiche in consiglio comunale e ci si interrogò a lungo su chi fossero i mandanti della sommossa: se si trattò di una spontanea iniziativa dei ceti più deboli, o se in qualche modo furono sobillati dai partiti.
In quegli anni Foggia viveva una situazione politica delicatissima. Ma questa ve la racconteremo in una prossima lettera meridiana, in cui regaleremo ad amici e lettori anche copia dei giornali locali dell’epoca.
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