Perché Foggia è “brutta”, perché dobbiamo amarla

La bellezza negata: il Portale di San Martino,
nella foto di Romeo Brescia

“Guardare non è guardare dall’alto, ma ad altezza d’occhi”. Hanno proprio ragione gli angeli di Wim Wenders che, nel film Il cielo sopra Berlino, decidono di scendere nelle strade della città tedesca, per capirla meglio. La bella frase – non a caso – costituisce anche la headline di Lettere Meridiane. Guarda Foggia ad altezza d’occhi, Francesco Caponigro, che invia le stimolanti riflessioni che seguono sulla “bruttezza” di Foggia. Al termine la mia risposta. Invito tutti gli amici e i lettori del blog a leggere, a riflettere, a dire la loro.

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Gentile Direttore,
sono un insegnante  in pensione di Roma, ma leggo con una certa continuità Lettere Meridiane. Qualche tempo fa  mi ha colpito  un articolo in cui si parlava di Foggia come di una  città particolarmente “brutta”. Premetto che non possiedo particolari competenze in fatto di urbanistica, tuttavia l’affetto che mi lega alla città,   dove affondano le mie radici familiari,  mi spinge ad inviarle  queste modeste riflessioni nate in occasioni di alcune recenti visite.
Foggia “brutta”? Salvo che non si tratti di semplici battute  tra amici,  per affrontare  un discorso  del genere servirebbe forse qualche  parametro più serio che aiuti a  definire in cosa consista la bellezza  di  una città . Provo a suggerirne qualcuno. 
Una città  mi sembra bella quando possiede un’anima, quando cioè consapevole, e perché no, orgogliosa della propria vicenda storica, ne fa un punto di riferimento sia  per la vita  presente che  per quella  futura,  con una progettualità capace di coniugare  passato e presente, esigenze pratiche ed estetiche,  fedeltà alla propria vocazione e insieme capacità di allargarne gli orizzonti.
Non c’è al contrario bellezza  quando nella vita collettiva, nelle decisioni da prendere, nei progetti da realizzare manca ogni legame con la storia  da cui si proviene:  cioè con una  tradizione – che non è semplice folklore –  nella quale  ciascuno possa riconoscere la propria identità, e da cui deriva, quando c’è,   quel senso di appartenenza che distingue  una somma di individui da  una comunità.
Uscita  dalle rovine dell’ultimo conflitto mondiale che l’hanno  privata brutalmente di gran parte della sua  identità –   ben documentata  in tante  foto d’epoca –  Foggia è rinata  sulla base di progetti  evidentemente finalizzati  a ricostruire più in fretta possibile quanto era andato perduto: una fretta  comprensibile, che tuttavia  anche a prescindere dalle inevitabili speculazioni,   ha prodotto un insieme  di edifici, strade, piazze, spazi pubblici e privati forse funzionale sul piano pratico, in cui non si avverte  però la presenza di  progetto unificante, capace di realizzare   quel dialogo e  quell’armonia tra le parti  che sono  il segreto della bellezza: che si tratti di un quadro, di  un arredamento, di un giardino o appunto di una realtà urbana. Per dirla in breve, le cose possono anche funzionare, ma è come se mancasse loro l’anima.

Come ho detto all’inizio non posso dire di conoscere bene la città, tuttavia per quel  che vale il mio giudizio, posso testimoniare che una volta partiti da Foggia  non restano  nella memoria immagini particolari, ma piuttosto una  vaga sensazione di anonimato, di  mancanza di  identità e  di una generale trascuratezza,  come accade con le cose che si usano ma non si amano,  e che spiega probabilmente quel  giudizio di città “brutta” di cui sopra.
Se quanto detto finora ha un senso, che fare allora?
Molte città in Italia e nel mondo hanno recuperato la memoria del loro passato riproponendola in chiave moderna attraverso la tecnica dei murales e della cosiddetta street art, che da una parte hanno fatto rivivere tradizioni, personaggi e valori dimenticati, dall’altra hanno spesso riqualificato zone degradate dando loro colore, fantasia, nuova identità, e costituiscono oltre tutto un forte richiamo turistico. È il caso di Orgosolo, per fare un esempio, dove i murales che decorano la città raccontano i principali fatti storici locali e i problemi più sentiti della comunità; o di Roma, dove un intero quartiere un tempo poco apprezzato, il Trullo, è come rinato a nuova vita  grazie ai murales che ricoprono ormai interi caseggiati.
A Foggia ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta: l’antica tradizione della “mena delle pecore” potrebbe ad esempio rivivere in una serie di murales realizzati in più punti della città, riproponendo quelle scene quasi bibliche di migliaia  di pecore in movimento nella pianura assolata descritte da tanti viaggiatori nell’ottocento;  per non dire di luoghi magici della città oggi  scomparsi, ad esempio il “Piano delle Fosse”, di cui il poeta Ungaretti disse ammirato che “nessun luogo avrebbe più diritto di essere dichiarato monumento nazionale”.
Mi fermo qui per non abusare della Sua pazienza e soprattutto perché non sta certo a me indicare quali temi eventualmente privilegiare in un’operazione che se opportunamente organizzata susciterebbe presumibilmente idee, energie e stimoli a catena. Quel che è certo è che restituendo alla città la sua anima con questa e altre iniziative  capaci di ravvivare il rapporto affettivo dei foggiani con la loro città,  difficilmente si continuerebbe a parlare di quest’ultima  come di una città “brutta”.
Francesco Caponigro 

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Condivido dalla prima all’ultima le riflessioni di Caponigro. L’analisi è ineccepibile. E così pure il suo indicare nei bombardamenti, e nella disordinata ricostruzione che ne è seguita, la chiave di lettura per comprendere sia la criticità estetica della città, sia la sua mancanza di anima, di identità.
Alla ragioni indicate da Caponigro mi sembra il caso di aggiungerne un’altra: l’impetuosa immigrazione di cui fu oggetto Foggia tra la fine del conflitto e gli anni Sessanta, che ne fecero crescere esponenzialmente la popolazione. Non fu soltanto una questione demografica: alla memoria profonda della città cancellata dalle bombe, si sostituì una memoria di segno nuovo, portata nel capoluogo soprattutto da quanti vi giungevano dai paesi del Gargano e del Subappennino. Una memoria fatalmente “leggera”, che alleggerì anche quella del luogo in cui andava ad innestarsi.
Tutto questo ha sancito anche l’atto di nascita di una periferia che prima non esisteva o che era in qualche modo profondamente assimilata alla città, e alle sue tradizioni, e in cui oggi si concentrano degrado, disgregazione, distacco.
A tutto questo aggiungerei la crisi diffusa della percezione del bello che pure la città possiede, seppure nei dettagli, che andrebbero riscoperti e riqualificati. Gridano vendetta il pietoso stato di degrado in cui versa la sola fossa granaria superstite, al Piano delle Croci, oppure il cancello, quasi sempre chiuso, che sottrae alla pubblica fruizione il lato sinistro della Cattedrale, in cui si trova l’opera forse più importante e rappresentativa della città, il cosiddetto portale di San Martino.
Matteo Pazienza ha scritto su questi temi un libro assai profondo e intenso (Forse Foggia non è il paradiso) e data anche la sua naturale propensione per il bello, potrebbe essere l’interprete naturale di un progetto rivolto a dare concretezza all’idea, estremamente intrigante, lanciata da Caponigro: un progetto di bellezza per Foggia da declinarsi attraverso i murales, ma non solo, che parta da ciò che resta dell’identità, dell’anima della città, per cercare di vivificarle. C’è anche un laboratorio naturale per far sedimentare e lievitare il progetto: Parcocittà, la rete che ha salvato Parco San Felice riconsegnandolo alla città, con i suoi autori.
Giro la proposta di Caponigro agli amici di Parcocittà e a voi, cari lettori di Lettere meridiane. Che ne pensate? Dareste una mano?
Geppe Inserra

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Author: Geppe Inserra

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