Elisabetta Tomaiuolo i numeri:
2008: laurea in beni culturali presso l’Università del Salento
2010: master in catalogazione informatizzata dei beni culturali
2015: con ass. Tautor presa in gestione del Museo Archeologico degli Ipogei di Trinitapoli
La storia di Elisabetta ci ha messo davanti a una grossa domanda: è possibile fare innovazione valorizzando la cultura? E con cultura non intendo solo gestione di un ente culturale (come lei fa quotidianamente con il museo di Trinitapoli), ma a più ampio raggio, è possibile, ad esempio con una base di cultura umanistica, essere innovativi nel proprio ambito lavorativo? La risposta, che leggendo le parole dell’archeologa troverete, è senza dubbio positiva. Positiva perché, come crediamo, la cultura crea sviluppo, impresa e turismo. E perché gli studi umanistici ancora oggi ci consentono di muoverci nelle sfide del digitale con spirito critico e capacità di scrittura che appaiono fondamentali, nonostante le “legioni di imbecilli” stigmatizzate da Umberto Eco. L’idea di innovazione di Elisabetta si fonda su un principio: il coinvolgimento. Più coinvolgiamo, nei progetti e negli enti culturali persone, preferibilmente giovani e non addetti ai lavori, più si avranno punti di vista diversi che serviranno ad aprire nuove porte e nuove prospettive.
Parliamo innanzitutto un po’ di te. Quali sono stati i tuoi studi, e come sei arrivata ad occuparti di un museo.
Io ho studiato Conservazione dei Beni Culturali. Da sempre fin dopo la laurea, l’aspetto che mi è più piaciuto dei beni culturali è quello della comunicazione, che poi è alla base della mission di una istituzione museale: educare e trasmettere qualcosa. I Beni Culturali devono servire alla comunità fatta di individui, per la crescita sia culturale che civile. Più che il piacere della scoperta archeologica mi ha sempre attratto molto di più il piacere di osservare come le persone reagiscano alla visita in un museo e interagiscano con i pezzi esposti. Per questo ho cominciato da subito a lavorare a questo aspetto prima al Museo Nazionale di Manfredonia; successivamente con delle colleghe abbiamo deciso di mettere su un’associazione finalizzata alla valorizzazione e alla comunicazione del Patrimonio, e quando si è presentata l’opportunità di prendere in gestione il Museo di Trinitapoli che stava riaprendo, abbiamo presentato la nostra offerta che è stata accettata.
Questo museo espone la cultura materiale di una grande eredità archeologica, i reperti provengono dagli scavi di una grande area santuariale dell’Età del Bronzo, unico nel suo genere, che, possiamo dire, l’Europa ci invidia.
Raccontaci allora di più del museo di Trinitapoli che avete preso in gestione.
Adiacente la cittadina di Trinitapoli è presente un sistema di ipogei sia monumentali che minori scavati nella roccia calcarea. Questi ipogei hanno la forma che richiama quella di un grembo materno, in cui si celebrava il culto della dea madre terra. Il rito praticato è molto particolare, è stato chiamato “rito dell’infrazione”: in sostanza i vasi, prodotti appositamente per essere donati alla divinità, venivano infranti di proposito; motivo per cui nessun vaso è stato ritrovato integro. Nella fase successiva intorno al 1500 a.C. gli ipogei vengono utilizzati come fosse funerarie per individui di rango sociale elevato.
Nel museo di Trinitapoli abbiamo sperimentato delle attività che prevedevano forme di partecipazione del pubblico, come ad esempio la caccia al tesoro attraverso i social o il concorso in collaborazione con l’associazione Globeglotter per artisti e scrittori che hanno dato una loro interpretazione del museo.
E’ di poche settimane fa la notizia del ritrovamento, trafugata nel 2011 dall’Università di Foggia. La scorsa estate c’è stato invece il gravissimo incendio sul sito di Faragola. Tu personalmente vedi, rispetto ai beni culturali nella nostra Provincia, più interesse o problematicità?
La riflessione che mi viene da fare è che veniamo da un territorio con una lunga tradizione di tombaroli, perché Arpi ha foraggiato il mercato nero di reperti archeologi.
(N.d.R. Arpi è la città della daunia più grande della Capitanta, prima alleata di Roma e poi distrutta dai romani). Diciamo che c’è stato un mal costume diffuso, per cui nelle nostre case non è difficile trovare un reperto antico. A volte si tratta di un desiderio, quasi morboso (per fare una battuta) di possedere qualcosa di antico, che non serve a nulla e non ha nulla a che fare con il desiderio di conoscenza. La funzione dei beni culturali è davvero un’altra.
Non è quella di tenerselo dentro casa e compiacersene. Tra l’altro perde di significato, perché spesso non si conosce il contesto di provenienza che è fondamentale per ricostruirne la storia e il significato.
I beni culturali hanno un senso in un luogo dove possono essere organizzate, e dove possono comunicare qualcosa ai visitatori.
A mio avviso la funzione principale dell’istituzione museale è quella di stimolare la creatività e produrre di conseguenza innovazione. Io penso che le zone che sono più culturalmente sviluppate, riescano poi a crescere di più anche in termini economici, perché la conoscenza fornisce nuovi stimoli, dai quali ci si può inventare qualche cosa di nuovo.
A volte dalla conoscenza di qualcosa, come può essere una collezione museale, costituisce un motore di creatività, come una lampadina che si accende e illumina altri aspetti della vita che magari apparentemente non c’entrano nulla con una storia di centinaia di anni fa. In virtù di questo credo che il rapporto tra le istituzioni museali e le scuole dovrebbe essere più stretto, e il museo dovrebbe essere un luogo abitualmente frequentato dalle scolaresche.
Il valore aggiunto che può dare un laboratorio, un’esperienza fatta in un luogo culturale, e questo vale anche per le biblioteche, diverso dalla scuola sia insostituibile nel percorso formativo di uno studente. Un conto è parlare dei dauni in classe, un conto è “andare a toccarli con mano”. Ovviamente ciò vale anche per il pubblico adulto, la formazione continua che si può fare anche attraverso visite e attività esperenziali, magari durante una vacanza turistica, costituisce un acceleratore di sviluppo.
Il museo di Trinitapoli che voi gestite, ha aderito al progetto di Swapmuseum, raccontaci cosa prevedono le attività.
Ho conosciuto l’associazione Swapmuseum prima virtualmente tramite facebook, infatti grazie ai social network si sono create diverse comunità i cui interessi ruotano intorno ai musei. Swapmuseum è un’associazione di promozione sociale con sede a Lecce, costituita da
giovani professioniste con background in ambito culturale ed economico attive nella
valorizzazione del patrimonio culturale.
In questi ultimi anni è nata l’esigenza di trovare nuovi modi di comunicare il museo che lasci spazio ad un approccio più personale rispetto alle esigenze di pubblici diversi, perché non siamo tutti uguali e ognuno di noi cerca qualcosa di diverso.
Già il fatto che in un museo non si possa toccare, per ovvie ragioni, e bisogni fare silenzio non facilita l’approccio, sommato alla stanchezza fisica, che può subentrare durante una visita, si capisce come chi si entri in un museo possa sentirsi a disagio.
Questo fa percepire il museo non come un luogo familiare, appartenente della comunità, ma quasi come un’enclave.
Swapmuseum ha vinto un bando di Fondazione con il Sud e con questo progetto sta coinvolgendo tutta la regione Puglia: cinquanta musei e duecentocinquanta swapper.
Chi sono gli swapper? Il concetto di partenza è lo “swap” che significa scambio. Uno scambio tra un museo e una persona che decide di svolgere un’attività non specialistica per esso.
Sottolineo le parole Attività non specialistiche, per evitare polemiche come quelle che ci sono state ultimamente riguardo un progetto di mediazione culturale che coinvolgeva degli immigrati. Le tipologie di attività previste si vanno ad aggiungere a quelle regolarmente svolte in un museo, ed hanno un valore diverso rispetto a quello che può fare uno specialista.
Si tratta di attività che vogliono essere utili all’istituzione ma che sono soprattutto un’esperienza formativa per chi la svolge, ed hanno un tempo limitato che varia dalle 15 alle 30 ore.
Gli swapper sono volontari, dai diciotto ai venticinque anni, poiché la finalità del progetto è coinvolgere questo target di utenti, e si chiede loro di mettere in campo le proprie competenze, passioni e i propri interessi non per forza afferenti alla sfera dell’area archeologica e storico-artistica.
Per esempio ci possono essere appassionati di fotografia, che mettono al servizio del museo la propria abilità per una campagna fotografica per raccontare il museo attraverso instagram, oppure chi è pratico di social network può cimentarsi nella realizzazione di un piano editoriale per la pagina facebook del museo.
Il mio ruolo è quello di tutor nello svolgimento di queste attività: l’idea è che i giovani vanno dove ci sono altri giovani. Cioè se dei giovani trovano interessante un museo, e svolgono attività al suo interno, possibilmente divertendosi, è molto probabile che anche altri giovani ne vengano attratti, e quindi siano spinti a frequentarlo. In sostanza gli swapper diventano dei mediatori culturali nei confronti dei loro coetanei.
Questo è molto interessante, e questo avviene anche per altri ambiti, come ad esempio l’informatica, dove molto spesso per compiere una operazione è più semplice affidarsi a un tutorial piuttosto che a una scheda tecnica.
Nel museo di Trinitapoli con dei ragazzi di quinto superiore, nell’ambito del progetto di alternanza scuola-lavoro, abbiamo realizzato delle didascalie emozionali.
Per prima cosa abbiamo fatto un lavoro di conoscenza del museo: sui reperti, sulla storia degli ipogei.
Dopodiché ognuno di loro ha scelto un pezzo, ed ha lasciato libera la mente di correre. Attraverso associazioni libere di idee hanno creato in sostanza un ponte tra le proprie sensazioni, il proprio bagaglio culturale, i propri interessi e la storia del reperto archeologico scelto. Le didascalie emozionali diventano delle porte d’accesso a dei contenuti non sempre facili. Spesso in un museo si leggono didascalie scientifiche e molto tecniche, ed è facile che la mia attenzione cali, ed anche la mia motivazione viene meno perché mi sento inadeguato, perché mi sembra di trovarmi davanti a qualcosa di incomprensibile.
Mentre una didascalia emozionale scritta da un ragazzo delle superiori può dare una chiave di lettura che faccia sentire l’oggetto osservato da un adolescente più vicino alle proprie esperienze ed emozioni.
In fin dei conti gli oggetti esposti in museo sono appartenuti a persone che avevano emozioni e storie del tutto simili alle nostre. Le ambizioni, le propulsioni degli uomini sono sempre le stesse, da secoli e secoli.
I ragazzi hanno tirato fuori delle riflessioni molto profonde e inaspettate, che uno specialista, con una determinata forma mentis, non sarebbe mai riuscito a tirare fuori. Il ruolo dello specialista, del professionista è quello di guidare e coordinare queste attività che servono a far scorrere linfa vitale in un museo.
Ad esempio l’anno scorso ho seguito dei ragazzi di terza superiore nell’ambito dell’alternanza scuola lavoro, nella progettazione di una caccia al tesoro pensata per dei bambini della scuola elementare.
I bambini sono stati entusiasti di andare al museo e trovare dei ragazzi che li hanno guidati e giocato con loro nella caccia al tesoro, si sono sentiti più coinvolti.
Abbiamo ottenuto il duplice risultato per cui i bambini si sono divertiti, e gli studenti erano soddisfatti e più sicuri di sé per la riuscita dell’attività.
Per quello che mi è parso di capire tutte queste attività sono pensate per avvicinare le nuove generazioni ai musei e per offrire servizi innovativi ai cittadini.
Per te cosa è l’innovazione?
Io credo che non ci inventiamo mai niente, ma le cose le riscopriamo. Nel campo museale l’innovazione è, a mio parere, la partecipazione. E’ riuscire a raggiungere una governance (N.d.R. l’insieme delle regole per la gestione di una società) partecipata. L’innovazione è mettere i beni culturali a disposizione di tutti, sia a livello cognitivo che fisico..
L’innovazione è creare una condizione di equità nell’accesso ai musei e quindi alla conoscenza.
Oggi si parla di rivoluzione digitale che coinvolge un po’ tutti i mestieri. Che cosa è cambiato nel tuo settore?
Nel mio settore è cambiato molto, perché l’innovazione digitale ha dato la possibilità di avere nuovi strumenti di comunicazione molto efficaci, che permettono di raggiungere un pubblico vasto, ma che non tolgono nulla all’esperienza diretta del museo.
Ha dato la possibilità di creare delle comunità, una circolazione di idee molto più veloce e amplificata. E’ come un continuo brainstorming (N.d.R. è una modalità di progettazione, che prevede l’esposizione e la discussione di idee in gruppo) in atto tra persone di provenienza e cultura diversa che contribuisce all’arricchimento dell’offerta museale. Un cambiamento in positivo che sta sradicando molti pregiudizi riguardo ad attività ritenute poco ortodosse per un museo.
Abbiamo parlato di beni culturali e innovazione, un connubio che a partire dalle cose che fai appare inevitabile. Oggi le facoltà umanistiche sono considerate meno utili di quelle scientifiche, si sente spesso che con la cultura non si mangia.
Personalmente consiglieresti a un giovane di intraprendere studi umanistici?
Si lo consiglierei assolutamente e ti dirò di più: in una società in cui la tecnologia è così pervasiva, in cui il digitale è davvero nella nostra vita quotidiana dalla mattina alla sera, in cui si producono un’enorme quantità di informazioni, gli studi umanistici formano quel senso critico necessario a compiere delle scelte e quindi ad essere responsabili di sé e nei confronti degli altri. Sono davvero la base. Le skills più tecniche e scientifiche e del mondo digitale si possono imparare durante e dopo gli studi umanistici.
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