“Scrivendo su queste colonne — da poco meno di due anni, ormai — m’è accaduto poche volte di intitolare una recensione teatrale colla parola successo: poche volte m’è occorso di non dover scemare la importanza dell’esito lusinghiero d’un’opera, esaminandone il suo valore intrinseco.
Ebbene, oggi mi trovo dinanzi ad uno di questi casi lieti. Andrea Chénier ha avuto un successo dei più schietti e dei più meritati che si possano ottenere. Con compiacenza lo registro ora, rallegrandomi di cuore col maestro Giordano, che s’è rivelato un forte, un valente musicista: la sua opera ha un valore reale, un’ importanza innegabile, e in questi tempi, dopo tanti tentativi falliti, dopo tante speranze deluse, il cuore s’allarga nel sentirla.”
Con queste parole, nel numero del 29-30 marzo 1896, il critico teatrale del Corriere della Sera recensì l’Andrea Chénier, rappresentata la sera precedente, in prima assoluta alla Scala di Milano. Si trattò di un successo strepitoso che consacrò il musicista foggiano, proiettandolo nel firmamento del melodramma e della scuola verista.
Stasera, in occasione del 150° anniversario della nascita di Umberto Giordano, Milano rivivrà l’indimenticabile serata del 28 marzo 1896. Alla rappresentazione dell’Andrea Chénier è infatti dedicata l’attesissima prima della stagione lirica della Scala (dalle ore 17.45, su Rai Uno).
Un successo che Milano tributò subito, senza esitazioni al Maestro foggiano, che scelse di vivere la sua vita proprio nella città lombarda. La recensione dello spettacolo sul Corriere della Sera, i cui critici erano piuttosto severi, decretò un successo senza precedenti.
Basterebbe il finale del terz’atto, oppure l’intero quart’atto – scrive ancora il critico, che si firma con le sole iniziali (Clm), per collocare l’Andrea Chénier fra le migliori opere moderne; ma anche le altre parti del lavoro — quantunque meno riuscite — sono degne di una grande considerazione.
Dopo aver raccontato la storia, il giornalista non lesina elogi nei confronti dell’allora giovanissimo Giordano, partito solo pochi anni prima dalla sua Foggia, per diplomarsi a Napoli.
Che si tratti d’un lavoro serio ho già detto. Aggiungerò ora che il suo pregio principale è quello della teatralità, intuita o dimostrata con grandissima sicurezza dal maestro Giordano. Egli vi è arrivato con un mezzo semplice, quello di comporre con schiettezza e sincerità; ciò che la sua musa gli ha dettato spontaneamente egli lo ha scritto. Ed ha fatto bene: il successo che ora lo conforta gli è venuto prima di tutto per questo fatto. Il pubblico ama che gli si parli franco, aborre dai sotterfugi.
Nell’Andrea Chénier non vi sono intenzioni recondite o idealità nascoste. Alla tela imaginosa dell’Illica (l’autore del libretto, n.d.r.), la musica non serve, comanda. Ne sfrutta gli effetti e ne schiva le difficoltà; rende le linee principali del quadro e non si perde nei fronzoli. Da ciò nasce la sua chiarezza, sana o vigorosa.
Ed è musica scritta bene; l’impasto orchestrale è completo, accurato, sonoro : talvolta perfino vi par eccessivo. Le fusioni dei timbri sono gradevolissime tanto in orchestra quanto sul palcoscenico. Il Giordano sente profondamente il dramma e lo sa rendere con forma appropriata ed efficace. Col Chénier — molto più che colla Mala vita — egli s’è conquistato un posto importante fra i compositori italiani: un’altra opera lo collocherà probabilmente fra i principali.
Insomma un autentico trionfo, tanto di critica che di pubblico, si direbbe oggi.
Il giornalista del Corriere della Sera si sofferma quindi sulle calorosissime reazioni del pubblico che la sera prima aveva affollato il teatro scaligero.
Il contegno del pubblico è stato ieri sera d’una schiettezza esemplare. Come un sol uomo gli spettatori hanno espresso i sentimenti che ispirava loro l’udizione della nuova opera. Venuti coll’idea preconcetta d’assistere ad una delle tante funzioni funebri di cui i palcoscenici di Milano sono così spesso il campo, hanno espresso durante il primo atto una gradevole sorpresa. Hanno chiamato l’autore quattro volte ed hanno voluto un bis.
Cresciuta la speranza e l’aspettativa, il second’atto ha avuto minor numero d’applausi; il pubblico ha voluto chiudersi in un prudente riserbo. Quando poi — dopo le prime scene del terz’atto — il grande pregio dell’opera si è palesato decisamente, il pubblico ha raddoppiato d’attenzione, non ha perso più una nota, e alla fine dell’atto ha rotto ogni ritegno applaudendo lungamente.
Al quarto l’ammirazione è stata costante ed intensa: non più con semplici applausi ma con vere ovazioni si volle vedere e rivedere l’autore.
L’enorme successo riscosso da Giordano è certificato da numeri inoppugnabili, che il critico del quotidiano milanese riporta scrupolosamente.
In complesso dunque dodici chiamate circa.
Quanto all’allestimento, una parola sola: stupendo! Le quattro scene sono una più bella dell’altra, i costumi nuovi o caratteristici, le masse intelligentissime nei movimenti. Come spettacolo ottico è questo il migliore della stagione, non esclusi dal confronto neppure i balli.
I principali esecutori furono pure apprezzati. Il tenore Borgatti ha un bel volume di voce, canta con garbo — quantunque non sempre sappia frenare la propria forza — ed ha buone note acute. Il baritono Sammarco aveva forse una parte troppo bassa per poter figurare da par suo, ma si dimostrò tuttavia artista corretto e sicuro. Ottima la signora Evelina Carrera dalla voce fresca e squillante.
Ricorderò ancora la signorina Ticci, la signorina Della Rogers — che sostenne con molta sicurezza due parti — il Wigley, il Roveri, il Giordani, che concorsero tutti a formare un complesso buono.
I cori, benissimo. Ottima l’esecuzione orchestrale, clic fruttò l’onor della ribalta anche al maestro Ferrari.
Per il più grande personaggio cui Foggia abbia mai dato i natali cominciò da quella sera, da quella prima dell’Andrea Chénier una inarrestabile e straordinaria carriera.
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