La leggenda di Vesta e Pizzimunno (di Giuseppe D’Addetta)

Garganici entusiasti, com’era del resto lecito attendersi, dalla notizia dello sbarco in pompa magna nell’olimpo della canzone italiana della Montagna del Sole, grazie a Max Gazzé (e naturalmente al direttore artistico del Festival di Sanremo, Claudio Baglioni, che ha selezionato il brano) che porterà sul palco del teatro Ariston la storia garganica per eccellenza, La leggenda di Cristalda e Pizzomunno.
È già scattato il conto alla rovescia e cresce l’attesa per il 6 febbraio, data in cui per la prima volta il popolare cantautore romano eseguirà la canzone.
Aspettando con ansia l’esordio sanremese del brano, ecco per gli amici e i lettori la storia dei due più celebri innamorati pugliesi, resa in qualche modo attuale dal recente sceneggiato televisivo sulle Sirene, che nella vicenda garganico hanno un ruolo, purtroppo, decisivo.
La presentiamo nella versione scritta da Giuseppe D’Addetta in uno dei primi numeri da La Tribuna di Foggia, settimanale di ispirazione democristiana che si pubblicava negli anni Cinquanta.
Se fosse ancora vivo, l’autore certamente non starebbe nella pelle per la notizia della canzone di Gazzé che porterà la storia sul palco canoro più importante d’Europa.
D’Addetta è stato tra gli intellettuali garganici più attenti alla valorizzazione del promontorio, e tra i più abili a raccontarne le millenarie radici. Nato a Carpino nel 1899, ha scritto molti libri sulla Montagna del Sole, ed è stato tra i primi ad intuirne il potenziale, battendosi tenacemente per superare i localismi e i campanilismi, e privilegiando la narrazione del Gargano come unicum.

D’Addetta fu molto attivo come scrittore e come giornalista. Fondatore del periodico Rinascita Garganica, ebbe il merito di rilanciare la pubblicazione de Il Gargano Nuovo.
La novella è intitolata Ogni cent’anni e come detto racconta la leggenda di Pizzomunno (che nel testo viene chiamato con il nome più antico di Pizzimunno) e Vesta, che l’autore usa nella sua originaria accezione, che ben per sottolinea il profondo legame che la storia ha con le radici di Vieste. Una storia di rara delicatezza, resa ancora più struggente dalla notevole capacità letteraria di Giuseppe D’Addetta, che si spense a San Menaio, nel 1980. Risale proprio a quegli anni la rivisitazione della storia che ha introdotto, in luogo dell’originaria Vesta, il nome Cristalda.
Buona lettura. (g.i.)

Ogni cent’anni

di Giuseppe D’Addetta
Era buio sul mare, quella notte ormai lontana. Ed era tutto silenzio e  mistero.
Mormorava solo l’acqua che la prora spartiva, e la grande vela arancione della paranza qualche volta batteva sgonfia per il cessare della brezza.
Tacevamo, stretti seduti a prua, sognando la luna bianca nella notte nera, mentre ascoltavamo i battiti dei cuori vicini che si sentono quando intorno è quiete e nell’animo garrisce la giovinezza.
A poppa, il marinaio di mezza età che governava la barca s’indovinava dal chiarore che arrossava l’apice della pipa ad ogni boccata di fumo. Neanche lui parlava; taceva con noi e con la notte.
La mia compagna mi si strinse di più.
– Hai paura?
– No; ma vorrei scendere a riva, guardare da terra questo buio misterioso che pesa sull’acqua,  temerlo ancora di più e poi provare più forte la sensazione di andare incontro all’ignoto quando riprenderemo il mare.
La vela fu spostata e docile la paranza, dopo qualche minuto,  si arenò con la chiglia.
La riva era ciottolosa; un taglio quasi perpendicolare mostrava appena nell’oscurità il candore della costa alta, da dove s’affacciavano le chiome dei pini che s’intravedevano soltanto come schermi forati dalla lucentezza delle stelle.
Camminammo un po’; la ghiaia scricchiolava sotto i nostri passi, con uno stridio che nella notte s’incupiva. Poi ad un tratto ci si parò davanti come un enorme fantasma bianco, una roccia alta, conica, alla cui base mormoravano le ondine in una carezza lieve che cessava e riprendeva, c schiumava appena nell’infrangersi ai piedi del faraglione.

 

Lontano, su Vieste, un chiarore rossastro interrompeva il buio che avvolgeva terra e mare.
Tornammo.
Il barcaiuolo ci attendeva sulla riva, con le mani congiunte sul dorso e la pipa spenta fra le labbra Ed a lui chiedemmo cos’era quella roccia alta che nella notte ci era apparsa come un enorme fantasma bianco, immobile vedetta a guardia sul mare. Scorgemmo appena l’incresparsi delle guance in un breve sorriso. mentre il marinaio tentennava la testa dall’indietro in avanti quasi ad esternare un grave pensiero che in quel momento gli serrava il cervello
Poi disse:
– È una storia lunga e dolorosa e potrebbe anche sembrare una favola se qualche vecchio pescatore non assicurasse che, quanto si narra, è vero perché se ne è accertato personalmente. Andiamo a sederci sulla barca e ve la racconterò.
L’acqua ci sembrò più fredda quando abbordammo la paranza, coccolata dalle piccole onde. La vela era ammainata; l’albero si sperdeva nel buio. Dalla poppa cominciò a giungere a prua la voce cupa del barcaiuolo, che nel silenzio assumeva alle volte tonalità strane, quasi uscisse dal fondo del mare. E la voce strana diceva:
• • •
– Qui siamo sul limite estremo del Promontorio, dove la terra maggiormente s’insinua nel mare Quel faraglione si chiama Pizzimunno ed è davvero un fantasma come a voi è sembrato, anche se di pietra.
La piccola rada di Vieste – voi lo avete visto – è sbarrata da uno scoglio lungo e basso, battuto ora dalle sciabolate luminose del faro.
Vieste è un’antica cittadina che – dicono – fu fondata da Noè su questa piccola rada, dopo il diluvio universale. E non v’era ancora a rimirarsi nel mare, al tempo in cui avvenne la storia che vi narro. Al suo posto, poche capanne si sperdevano fra i pini.
In una di quelle capanne, aggrappate al dorso del colle da dove le mura nere dello sbrindellato castello guardano ora il mare, viveva la più bella fanciulla di tutto il Gargano. Era più bella del sole quando sorride all’aurora, della rosa quando schiude all’alba la sua prima corolla. Dicono che si chiamasse Vesta e che di lei anche i fiori fossero innamorati tanto grande era la sua bellezza. E quando Vesta passava, si aprivano tutti per profumarle l’aria che respirava.
Vicino alla riva, in un’altra piccola capanna che le onde bagnavano durante l’alta marea e davanti alla quale s’arenava la barca nei giorni di burrasca, abitava Pizzimunno, un pescatore dalle membra perfette e vigorose, tutto il giorno in mare. E quando l’acqua era trasparente, Pizzimunno scorgeva sul fondo visi bellissimi di donne, mentre canti maliosi cominciavano a serpeggiare nell’aria. Poi, come quei visi s’innalzavano fino al pelo delle onde, il canto s’irrobustiva e la melodia s’avvicinava. E durava a lungo, conturbante, mentre dal mare uscivano a mezzo busto bellissime ragazze bionde e brune che sorridevano al pescatore tutt’intorno alla sua barca. Di tanto in tanto cessava il canto e voci carezzevoli invitavano Pizzimunno a scendere negli abissi del mare, dove l’attendeva un regno fiabesco e tutto il loro amore. Sarebbe stato il loro signore, le avrebbe prese tutte o soltanto quelle che desiderava e quando le volesse. Felici anche le altre di poterlo guardare soltanto, di una sua carezza, di una sua parola. E gli avrebbero donato la loro stessa immortalità, con il loro amore eterno.
Ma Pizzimunno amava Vesta ed alle sirene rispondeva che la sua amante era sempre la più bella e nessuna di loro reggeva al suo confronto. E una carezza di Vesta valeva tutta l’eternità che esse volevano donargli.
E quando a sera ritornava nella rada, Vesta l’attendeva sulla spiaggia per salire sulla sua barca ed andare insieme sullo scoglio piatto che chiude la cala, soli con il loro amore a cui il mare cantava la sua canzone senza fine.
Illividivano le sirene quando, nelle notti di luna, scorgevano sullo scoglio gli amanti. E nei giorni successivi, più dolci erano le loro voci ed i loro canti, più promettenti i loro sguardi, più tentatori i loro sorrisi nell’ansia di conquistare il bel pescatore. Il quale un giorno disse loro:
– No, sirene, io amo il mare, i vostri canti che ripetono le onde quando voi non ci siete, tutto l’oro del sole fra il turchino che circonda la mia solitudine. Ma amo di più Vesta che nel suo corpo incatena il sole, che ha negli occhi il glauco delle onde, e tutte le vostre bellezze nella sua. Siatemi sorelle nella sconfinata solitudine marina ma amanti no perché solo Vesta io amo.
Allora le sirene lo minacciarono. Ed egli rise perché non cosi, con le minacce, sarebbe finito il suo amore per Vesta; né il suo cuore lo avrebbero mai avuto loro. E Vesta lo avrebbe amato sempre, anche fantasma, oltre la vita.
Le sirene allora si consultarono. Non potevano sopportare che un misero e mortale pescatore si ridesse di loro, ed una fanciulla terrena le vincesse in amore; vincesse loro, le ammaliatrici a cui nessuno aveva mai resistito. E dal consiglio di tanta gelosia, venne fuori una sentenza terribilmente crudele che nell’eternità avrebbe fatto soffrire i due amanti.
Tacque per un momento il marinaio.
Nella notte scura spirava appena un alito di vento. La barca era immota sull’acqua; il mistero aveva ansie e palpiti sospesi.
• • •
– Vesta, solo tu sei tutta la mia vita, sussurrò una notte sullo scoglio Pizzimunno. a conclusione dell’ultimo racconto delle lusinghe delle sirene e delle loro minacce.
– Pizzimunno, ho paura. Sento che qualche cosa di molto grave pesa sul nostro destino.
La voce di Vesta era flebile, accorata.
La luna guardava, alta nel cielo; la terra e il mare sorridevano al suo argento senza calore. Sullo scoglio solitario si ripercuoteva il fremito delle onde.
Ad un tratto un canto dolce s’intese e pareva lontano.
Pizzimunno rise credendo ad un altro tentativo delle sirene in presenza della sua amante. Vesta si rifugiò nelle sue braccia; tremava.
S’avvicinava sempre più il canto.
Non da lontano ma dalle onde ora sgorgava e saliva su dal fondo, lento ma sempre più vicino. E quando fu da presso, divenne più dolce ed intenerì gli amanti che immobili ascoltavano, con gli occhi fissi sul mare.
E non si accorsero che delle sirene erano alle spalle di Vesta.
Ad un tratto la fanciulla fu stretta da catene ed uno strappo forte la fece cadere in acqua mentre il giovane, come pietrificato, guardava il gorgo che brevemente ribollì sulla testa dell’amata. Poi si riscosse e si tuffò quasi a raggiungere il fondo.
Sghignazzava ora il canto lontanando e Pizzimunno lo seguiva a nuoto nella speranza di raggiungere Vesta.
Poi si sentì sfinito ed ogni movimento gli fu impossibile.
L’alba che seguì vide sulla riva quella roccia alta e bianca che a voi è sembrata un fantasma. Da quella notte Pizzimunno non è più apparso nella rada.
Vesta fu trascinata lontano, negli abissi marini. E i suoi occhi lucenti di pianto, videro un regno fiabesco, antri splendenti che si susseguivano all’infinito con volte frastagliate di madreperla, dei quali un mare turchino e trasparente formava il pavimento. E da quel pavimento le sirene uscivano a mezzo busto, bellissime nel volto e con negli occhi un odio terrificante. E beffavano Vesta, la bella del mondo, e la invitavano ad invocare il suo Pizzimunno perché venisse a riprenderla.
Poi Vesta sentì che i piedi le diventavano di ghiaccio e il ghiaccio salì pian piano su fino al capo; ed al posto di quella fanciulla bella come il sole, la più bella che mai abbia visto il Promontorio, si formò una stele di corallo rosa intorno alla quale le sirene sarabandarono.
Si fermò ancora il marinaio nel suo dire.
La mia compagna emise un profondo sospiro come a liberare il cuore da un incubo; e con le mani strinse forte il mio braccio perché temeva le sirene in quel buio che il racconto del barcaiuolo rendeva più misterioso.
E il marinaio riprese:
– Nessuno sa con precisione dove sia il regno fiabesco delle sirene negli abissi del mare. Tutti però dicono che si trova fra le Tremiti e la costa garganica. E la stele di corallo rosa in cui Vesta è trasformata,  dal suo apice goccia sempre lacrime mentre una catena di cento maglie la tiene assicurata ad una grande colonna che sorregge la volta. Le lacrime cadono come perle fosforescenti sull’acqua azzurra che circonda la stele rosa e si ammucchiano alla sua base cerne a formare il piedistallo Ma se una sirena le tocca, si liquefanno e tornano stille di acqua nell’acqua
Ed anche la stele di corallo ridiventa Vesta e il faraglione ridiventa Pizzimunno se una sirena li accarezza. E non vi è pianto più accorato di quello dei due amanti quando riprendono spoglie umane.
Da questo pianto le perfide sirene sono state impietosite ed hanno deciso di far rivedere gli amanti ogni cento anni, su quello stesso scoglio dove vissero l’ultima notte d’amore. Ma è pietà la loro o una più grande perfidia se l’attesa di un secolo non è che un tormento senza fine per le anime di quei corpi irrigiditi? Perché neanche le anime possono ricongiungersi avendole, l’incantesimo, per l’eternità legate alla materia.
Così ogni cento anni Vesta e Pizzimunno si ritrovano sullo scoglio piatto che chiude la rada ed è folle la loro gioia in quella notte che trascorrono insieme
Ma nessuno riesce a fuggire verso la terra dove le sirene non potrebbero raggiungerli. La catena dalle cento maglie si tende e il mare inghiotte di nuovo Vesta mentre Pizzimunno guarda ancora come inebetito il gorgo che ribolle. Poi comincia a nuotare seguendo il canto delle sirene e si rinnova l’incanto sulla riva che ci è vicina; lì si riforma il faraglione, gigantesco fantasma di pietra bianca.
E che questo accada, lo hanno assicurato vecchi pescatori i quali inutilmente in una notte hanno cercato il faraglione senza trovarlo. Eppure conoscono la riva palmo a palmo.
Ma nessuno riesce a ricordare la data in cui l’incantesimo di Pizzimunno s’interrompe. Si sa solo che la notte è buia, con poche stelle, nella calma più assoluta del mare.
– Potrebbe anche essere questa notte, disse la mia compagna.
– Sì potrebbe essere, rispose il pescatore
E con un remo spinse sul fondo per disincagliare la paranza dalla sabbia fine in cui la chiglia si era arenata.

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Author: Geppe Inserra

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