Don Tonino Intiso: “Osare più solidarietà è possibile, ma dobbiamo tornare a prenderci cura”

Don Tonino Intiso

Tirato in causa da don Fausto Parisi che su l’Attacco lo ha definito “a suo tempo campione dell’assistenza a nomadi ed extracomunitari”, don Tonino Intiso dice la sua sulla pacifica occupazione della Cattedrale ad opera di alcune decine di lavoratori immigrati che chiedevano il ripristino dell’erogazione dell’acqua nel Grand Ghetto del Tavoliere, sottoposto mesi fa a sequestro penale, e sgombrato per ragioni di ordine pubblico e per il fondato sospetto di infiltrazioni della criminalità organizzata.
Nonostante lo sgombero e il sequestro, un gruppo di immigrati è tornato a insediarsi nel Grand Ghetto, dove però manca l’acqua. I lavoratori hanno chiesto la mediazione della Chiesa foggiana e dell’Arcivescovo, mons. Vincenzo Pelvi, che li ha accolti ed ha interessato il Prefetto, che a sua volta ha sensibilizzato l’Acquedotto Pugliese, suscitando le ire del governatore regionale pugliese, Michele Emiliano. Il ripristino dell’erogazione idrica sarebbe illegale, non essendo venute meno né le ragioni del sequestro, né quelle dello sgombero.
L’Arcivescovo è stato accusato da qualche parte di ingenuità, c’è chi si è meravigliato per l’intervento della Chiesa. Che ne pensa don Tonino Intiso alla luce della sua esperienza, quando era direttore della Caritas Diocesana?

“Nessuna meraviglia. La Chiesa deve sempre aprire le sue porte. Il parroco della Cattedrale ha fatto bene ad accoglierli come abbiamo fatto noi tanti anni fa, nella prima stagione dell’accoglienza. A San Giuseppe Artigiano. E poi ad Arpinova. Dando loro qualcosa di più dell’acqua: un letto per dormire, servizi igienici per lavarsi e un pasto per ristorarsi.

Le polemiche di questi giorni mi hanno amareggiato. Il problema è di difficile soluzione, d’accordo, ma non si può parlare di ricatto dell’acqua.
E poi non è questione del Vescovo ma di tutta la Chiesa nel senso più autentico di ecclesia. Bisogna fare comunione tutti insieme: Vescovo, clero, comunità dei fedeli. Ritrovare l’ecclesialità, rifuggendo il clericalismo.
Cos’è cambiato da allora ad oggi?
“Il modo di intendere l’accoglienza, che oggi è divenuto un fatto prevalentemente politico in cui ognuno cerca di svolgere il suo ruolo.
Allora, all’inizio, era qualcosa di cui ci si prendeva cura attraverso persone motivate, come gli obiettori di coscienza, che lo facevano per una scelta precisa: anziché il servizio militare sceglievano di darsi da fare sul campo.
Nelle cronache di questi giorni, mi ha colpito non vedere citata la Caritas. Vuol dire che la Caritas è assente?”
Nel suo articolo sul quotidiano L’Attacco, don Fausto ha sottolineato che gli immigrati avrebbero dovuto rivolgersi al Vescovo di San Severo, in quanto il Grand Ghetto ricade in quel territorio diocesano. Che ne pensi?
“Non è questione di competenze territoriale tra Foggia e San Severo. Semmai,  occorrerebbe un ruolo di coordinamento tra le diverse diocesi che non può che spettare all’Archiodiocesi metropolitana di Foggia, che ne ha il titolo e la specifica responsabilità, essendo appunto un’Archidiocesi.
Ma è vero anche che è necessaria una accoglienza diffusa: i campi potevano andare bene in una logica emergenziale,  adesso non più. Sono troppo esposti al giogo della criminalità organizzata, del caporalato, della mafia.”
L’esperienza di quegli anni, la tua esperienza, può tornare utile anche ad affrontare i problemi di oggi?
“Direi proprio di sì. Forse il problema maggiore sta proprio nel fatto che abbiamo perso memoria di quello che la Chiesa è riuscita a fare a Foggia, del ruolo che ha svolto.
La lezione profonda di quegli anni è che siamo riusciti a fare quando abbiamo fatto insieme. Qualcuno pensava che era un mio pallino, invece era un’azione  ecclesiale. Non è più possibile un’azione solo della Chiesa o solo delle istituzioni. Bisogna fare insieme. Non è più possibile che ogni pensi di far da solo. E poi è necessario restituire senso al volontariato, rilanciando la sua funzione di stimolo.”
Ma oggi la Chiesa foggiana concretamente, che può fare?
“Tornare a riflettere, a pensare. Porsi al tavolino come comunità ecclesiale,  riprendere la conferenza della solidarietà. Analizzare i bisogni, vedere chi può rispondere. Chiamare in causa l’Università. Era questa la filosofia del progetto del Pensatoio. Creare un gruppo che svolgesse un’azione di monitoraggio e di analisi.
Ne ha responsabilità soprattutto chi come noi, certe cose le ha vissute: adesso dobbiamo darle ad altri.  Osare più solidarietà è possibile. Direi necessario.”
Geppe Inserra

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Author: Geppe Inserra

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