Dal suo profilo facebook, Giuliano Volpe manifesta preoccupazione per il calo di tensione che si sta registrando localmente, dopo lo scempio di Faragola, e invita “passato il momento della tragedia” a non sottovalutarne la gravità.
Sarebbe in effetti un errore circoscrivere nell’ambito della cronaca nera il barbaro rogo che ha gravemente danneggiato la Villa romana di Faragola e i suoi straordinari reperti archeologici, delegando il caso alle indagini della magistratura e delle forze dell’ordine.
Se si vuole ripartire, non si può fare a meno di riflettere sull’interrogativo che aleggia fin da quando le fiamme hanno oltraggiato un inestimabile patrimonio. Come ha potuto verificarsi un episodio del genere? Tanta ricchezza e tanta bellezza erano adeguatamente custodite e tutelate? E in futuro, cosa si può fare per evitare che episodi del genere abbiano a ripetersi?
Volpe non è uno che si nasconde dietro il dito, ed affida al suo blog lo sfogo amaro di chi quella villa l’ha scoperta, scavata e indicata come possibile modello di una politica più ampia di uso pubblico e valorizzazione dei beni archeologici della Capitanata. È per questo che la posta in palio è alta, altissima. Non si tratta soltanto di salvare Faragola e di farla risorgere, come l’araba fenice, secondo il fortunato hash tag lanciato per l’occasione. (Ri)partendo da Faragola si tratta di mettere finalmente a punto una politica culturale condivisa della e per la Capitanata, che possa far veramente diventare i beni culturali volano per la crescita culturale, civile, economica e occupazionale del territorio.
Diversamente da tanti suoi colleghi, che una volta effettuati gli scavi preferiscono ricoprire quanto hanno scoperto, proprio per evitare azioni predatorie, Giuliano Volpe ha sempre perseguito una politica di fruizione e di valorizzazione. Faragola era in un certo senso il suo fiore all’occhiello.
La prima parte dello sfogo di Volpe (che potete leggere interamente qui) è dedicata ad un bilancio della sua attività di ricerca e di scavo. Ed è un bilancio assolutamente positivo, costellato da numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali. Ma ecco cosa scrive il Rettore emerito dell’Università di Foggia del resto:
Al contrario il bilancio per le fasi relative a tutela-valorizzazione-comunicazione-fruizione della filiera è alquanto deludente. La villa romana di Agnuli a Mattinata, uno dei miei primi scavi in Daunia (peraltro ancora ampiamente da completare), voluto dall’indimenticata e indimenticabile Marina Mazzei, è in condizioni penose, pur essendo in un’area molto turistica, nei pressi del porto. Herdonia, dove ho scavato per un decennio con Joseph Mertens è ancora in parte in proprietà privata (la parte scavata), pur essendo finalmente acquisita tutta la parte non scavata, ma è in uno stato di sostanziale abbandono (eppure trovammo un finanziamento della Fondazone CRP per realizzare un percorso di visita e poi ottenemmo un cospicuo finanziamento regionale, mai utilizzato per l’area archeologica) e anche il Museo civico, ora finalmente in parte allestito, è ancora quasi sempre chiuso e privo di una vera gestione e va completato. San Giusto, poi, è sott’acqua e i suoi mosaici asportati nel 1998 attendono ancora di essere esposti, peraltro sotto un’orrenda tettoia, e il nostro coinvolgimento nelle fasi di musealizzazione è stato finora inesistente (eppure organizzammo una bella mostra nel 1998 e anche i fondi regionali con cui si sono fatti i lavori di restauro e allestimento furono ottenuti grazie ad una mia richiesta tanti anni fa), anche se l’amica soprintendente Bonomi mi ha da poco comunicato che vorrebbe la nostra collaborazione. Gli scavi di San Pietro a Canosa (dove abbiamo trovato una grande chiesa con la tomba di San Sabino) sono in abbandono, ancora in proprietà privata, e quelli della cattedrale paleocristiana di Santa Maria, peraltro ancora da completare, sono in condizioni ‘difficili’, non visibili, anche se in zona demaniale. E poi anche altri scavi importanti della nostra équipe, come quello a Montecorvino, straordinario sito medievale di altura abbandonato, ancora in proprietà privata, con una torre in equilibrio instabile sempre a rischio crollo.
Faragola rappresentava (e spero possa continuare a rappresentare) l’unico caso in cui mi sembrava possibile chiudere la filiera.
Dove ho/abbiamo sbagliato? Sfortuna? Incapacità?
In questi momenti mi tornano in mente le parole del prof. Mertens, quando mi diceva a proposito di Herdonia, che vedeva sempre più degradata: “ho fatto un errore! avrei dovuto rimettere tutto sotto terra a scavo finito”.
Chissà, forse hanno ragione tanti colleghi che effettuano ottimi scavi e preferiscono ricoprire alla fine, sia per garantire protezione alle strutture, sia anche per non porsi il problema complicato della valorizzazione del sito.
Sia ben chiaro: ricoprire è assolutamente giusto e corretto dal punto di vista metodologico quando non ci sono le condizioni per valorizzare. Un grave errore lasciare ‘buchi’ aperti, in città e campagna, che rischiano di diventare ricettacolo di spazzatura e di degrado. Ma a Faragola sembrava che ci fossero tutte le condizioni: un sito eccezionale, con buone-ottime condizioni di conservazione delle strutture archeologiche, un’area pubblica, vicina ad una strada, facilmente raggiungibile.
Ma la domanda è: ci sono le condizioni? Le condizioni ‘ideali’ prevedono anche che ci sia un progetto di gestione, affidabile, sostenibile, di qualità, con personale qualificato. Ma dove, in quali musei e siti archeologici, ci sono tali condizioni? Forse bisognerebbe accettare questo dato: non ci sono ancora le condizioni per realizzare un parco archeologico. E non parlo solo dei rischi di danneggiamenti dolosi, di ladri, delinquenti, balordi. Ma anche dell’incuria, del disinteresse, del degrado diffuso, oppure anche della scarsa professionalità con cui si affrontano questi temi, del provincialismo, della grettezza, dell’incapacità di creare rete tra diverse realtà museali, dell’incapacità di avere una visione più ampia e lungimirante da parte di tanti amministratori.
Cosa fare allora? Limitarsi a studiare e a pubblicare, comunicando i risultati alla comunità scientifica ma non alla comunità locale, ai cittadini, ai bambini? Possiamo pensare che sia meglio ricoprire i nostri scavi in attesa di tempi migliori, di un futuro, cioè, in cui si possa valorizzare il nostro patrimonio? Un futuro assai lontano, nel quale non ci saremo. No, non riesco a rassegnarmi. Come possiamo rassegnarci a questo noi che crediamo nell’archeologia pubblica, nella democratizzazione della cultura, nella partecipazione attiva dei cittadini, nei principi della Convenzione europea sul valore del patrimonio culturale? Noi che crediamo sulla possibilità di dare un contributo ad uno sviluppo sostenibile, ad un’economia sana, ad un turismo di qualità, alla creazione di lavoro per i nostri studenti e laureati e non solo?
Già, come possiamo rassegnarci? Ed è per questo che va condivisa la preoccupazione manifestata dal professore circa l’allentarsi della tensione, della mobilitazione. E non solo.
Il ragionamento di Giuliano Volpe lascia in sospeso una domanda di non poco conto: chi deve farlo?
Dopo il mezzo scioglimento delle Province voluto dal governo Renzi (e bocciato dagli elettori…) non si capisce bene a chi spettino le politiche culturali di “area vasta”. Non che quando erano in vita le Province si distinguessero particolarmente per la loro attenzione verso il patrimonio culturale (ma vale la pena ricordare che la Provincia di Foggia ha promosso tre musei e una galleria d’arte…). Ma almeno c’era un punto di riferimento.
E adesso? È impensabile che ciascun comune, da solo, possa azionare e governare politiche culturali complesse, che necessitano di reti, sinergie, relazioni, modelli che investono territori più ampi, che travalicano i confini comunali. Del resto, il lungo elenco di occasioni fallite stilato dal prof.Volpe nel suo bilancio, è eloquente.
E allora? Allora Faragola è davvero l’ultima spiaggia. Quel lembo fortunato di Puglia che annovera in pochi chilometri una concentrazione di giacimenti culturali che fa invidia all’Europa (Faragola, i Grifoni Policromi e il polo museale, l’area archeologica daunia di Serpente, sempre ad Ascoli, e quella di Herdonia) può diventare veramente la culla dell’araba fenice.
Ma a patto che si chiarisca chi deve fare che cosa.
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