Questione meridionale. Oltre la famiglia. Oltre il partito (di Geppe Inserra)

A partire dalla discussione tra Michele Eugenio Di Carlo e Teresa Silvestris, gli amici di Lettere Meridiane hanno dato vita ad un confronto appassionato, intenso, intrigante sulla questione meridionale. Prometto che raccoglierò tutti gli interventi in un e-book che regalerò ai lettori del blog.
Per quanto strano possa apparire, premetto di essere d’accordo con tutti gli interventi: le dissonanze, le divergenze, sono a mio giudizio esclusivamente apparenti. In primis, perché c’è un solido substrato e sentimento che accomuna quanti vi hanno preso parte: la passione genuina per il Mezzogiorno, il desiderio di riscatto.
Vorrei dire la mia sulla necessità di  quella autocritica meridionale che sta tanto a cuore all’amica Silvestris.
Lo faccio riproponendo agli amici e lettori di Lettere Meridiane un articolo che ho scritto per la rivista SudEst diretta da Franco Mastroluca (un ufo della politica provinciale, che ha alternato mandati parlamentari e vita politica a un impegno intellettuale e scientifico sincero, disinteressato, tenace). È la recensione a un libro che tutti a mio avviso dovrebbero leggere, Bassa Italia di Marco Demarco.
Il sottotitolo è tutto un programma: L’antimeridionalismo della sinistra meridionale. La tesi che sottende declina alla perfezione il sentimento che pervade tutto il libro: la necessità di un’autocritica meridionale come indispensabile precondizione al rilancio del Mezzogiorno o, se preferite, della questione meridionale.
Le reciproche recriminazioni, la polemica spicciola, la ben nota tendenza all’autoconservazione che caratterizza la politica soprattutto nella Seconda Repubblica dovrebbero lasciare il posto ad una serena ed approfondita riflessione (autocritica), nel senso indicato da Demarco: superare una volta per tutte le logiche delle “famiglie” (che conducono al familismo amore stigmatizzato da Bamfield) e dei “partitismi” che portano dritti dritti al più spregiudicato clientelismo. Ecco l’articolo. Grazie a quanti avranno la pazienza di leggerlo.

* * *

Questione meridionale. Oltre la famiglia. Oltre il
partito.

Partiamo da un dato di fatto: la questione
meridionale è viva e vegeta, ma non attuale. Che persista – irrisolta e forse
irresolubile – stanno lì a certificarlo concordemente tutti gli indicatori
economici, produttivi, occupazionali, sociali e civili. Che sia stata quasi del
tutto rimossa dall’agenda politica che conta, nessuno può contestarlo. Basta
sfogliare giornali e rassegne stampa, per rendersi conto che nessuno, o quasi,
parla più della questione meridionale, intesa come divario stabile, ma da
colmare tra il Nord e il Sud del Paese.
Il dibattito sul federalismo, il prorompere della
Lega Nord sulla scena politica nazionale hanno fatto emergere piuttosto una
questione settentrionale, occultando la persistenza di un gap che mai è stato così acuto come oggi : non soltanto in termini
economici ma anche, e soprattutto, sotto il profilo culturale.

Il libro di Marco Demarco, Bassa Italia (Guida, 2009) offre diverse chiavi di lettura per
comprendere (e in qualche modo dipanare) l’apparente contraddizione di una
questione meridionale immanente ma inattuale, persistente ma rimossa: il punto
di partenza è la necessità di un’autocritica
meridionale
, che non rinunci ad affrontare quel divario che resta l’aspetto
fondante della questione meridionale, ma che cerchi di capire, nello stesso
tempo, perché il Mezzogiorno non riesca a progredire ed anzi regredisca, tanto
da diventare dopo l’emergenza rifiuti di Napoli, un problema, più che una
risorsa per il Paese, un vincolo, una palla al piede dello sviluppo nazionale.
Direttore del Corriere
del Mezzogiorno
(che ha fondato assieme a Paolo Mieli), dopo essere stato
vicedirettore de l’Unità, insegnante
di giornalismo, fondatore dell’Osservatorio
sulla camorra e sull’illegalità
, Demarco ha scritto un libro
sorprendentemente denso, di cui non mi sentirei di consigliare la lettura sotto
l’ombrellone. Ognuna delle 205 pagine va centellinata, letta, riletta: il
volume  ricostruisce dall’origine la
questione meridionale, senza mai storicizzarla banalmente, ma mettendo a
confronto decine e decine di citazioni, tesi, opinioni diverse.
Se e quando l’autore guarda al passato, è per
cercare risposte all’interrogativo che attraversa tutto il volume: il divario
ed il suo mancato superamento sono inevitabili? Più precisamente sono
determinati soltanto dalle ragioni storiche, economiche ed infrastrutturali su
cui si è a lungo intrattenuto il dibattito meridionalista, o anche da
motivazioni antropologiche o peggio ancora, razziali?
La complessità e il fascino del lavoro di Demarco
sta proprio nell’aver scelto, per affrontare la questione meridionale, un
approccio a trecentosessanta gradi, superando l’errore prospettico che ha
spesso viziato la riflessione meridionalista: il ritenere coincidenti, o almeno
speculari, il divario nord-sud e la questione meridionale.
Che esista una forbice tra il Nord e il Sud del
Belpaese è un dato incontrovertibile. Può essere misurato, soppesato e conduce
all’amara constatazione che nonostante tutti i tentativi messi in campo per
correggerlo, per attenuare la divaricazione, le due velocità, assai poco è
cambiato. Anzi, la tragedia dell’emergenza rifiuti a Napoli (cui viene dedicata
buona parte del libro) sancisce secondo l’autore il fallimento definitivo
dell’idea di uno sviluppo, di un futuro affidato ai meridionali. Monnezza d’Ampezzo è paradigma di tutto
il Sud. L’emergenza rifiuti, secondo la brillante metafora di Ernesto Galli
della Loggia, sancisce il passaggio da Napoli
capitale
a Napoli prefettura,
ovvero ad una città che affida allo Stato la soluzione di un problema tutto
sommato quotidiano come quello dello smaltimento della sua immondizia.
La questione meridionale è però un fenomeno assai
più fluttuante, soprattutto se la intendiamo come percezione ed autocoscienza
del divario, e come proposizione ed adozione di strategie per rimuoverlo.
Demarco rimette il dibattito con i piedi per
terra, confrontandosi più che con la storiografia della questione meridionale
con quella, altrettanto copiosa ma meno conosciuta, sul divario, o più
precisamente con la storiografia dei tentativi che si sono succeduti nei
secoli, di dar conto del divario, di interpretarlo attraverso i paradigmi delle
scienze positive. Si tratta di una prospettiva, un punto di vista molto più
complesso, ed indubbiamente affascinante.
Si viene così a scoprire che la sinistra (di qui
il sottotitolo, intrigante e provocatorio, del libro: l’antimeridionalismo della sinistra meridionale) ci ha messo del
suo nel teorizzare e poi provocare quella deriva
antropologica
che ha spesso accompagnato il dibattito meridionalistico,
scaricando l’origine del divario a cause esogene.
L’autore accusa senza mezzi termini la sinistra
meridionale di razzismo etico,  per aver prima teorizzato, attraverso studiosi
come Niceforo e Lombroso, l’ineluttabilità del divario dovuta a livelli diversi
di civiltà e a differenze antropologiche tra settentrionali e meridionali,
e  per aver alla fine concluso, di fronte
alla (presunta, secondo Demarco) impossibilità di cambiamento che “unica
possibilità è, per chi può l’exit,
cioè andarsene, che è purtroppo quello che stanno facendo tutti i giovani più
intraprendenti.” (Gabriella Gribaudi, Il Mattino, Napoli, 8 giugno 2008).
La tesi del divario antropologico (non sempre,
come vedremo, da guardarsi come fattore necessariamente negativo) annovera tra
i suoi sostenitori diversi, insospettabili epigoni della sinistra culturale e
politica, come Giustino Fortunato, scherzosamente accusato, ma in definitiva,
assolto, di relazioni pericolose con Niceforo. Inequivocabile, però, quanto
Fortunato scrive ne Il Mezzogiorno e lo
Stato Italiano
(Vallecchi, Firenze, 1973 nella edizione citata da Demarco,
la prima edizione risale al 1911, per i tipi di Laterza, Bari): “Siamo
quel che la razza, il clima, il luogo, la storia (la storia di un paese
naturalmente assai povero che gli uomini si ostinano a ritenere naturalmente
assai ricco) hanno voluto che fossimo: nella sventura i più duramente colpiti,
i più deboli al momento della riscossa.”
Tra i sostenitori di una diversità meridionale determinata da ragioni ambientali c’è anche
un nome eccellente del meridionalismo contemporaneo come  Franco Cassano, che mutua il concetto da un
altro “insospettabile”, Giacomo Leopardi, cui lo studioso barese ha dedicato
lo studio Oltre il nulla, pubblicato
da Laterza nel 2003. Per il poeta di Recanati, “la stagione ed il clima
freddo dà maggior forza di agire, e minor voglia di farlo, maggior contentezza
del presente, inclinazione all’ordine, al metodo fino all’uniformità. Il caldo
scema le forze di agire, e nel tempo stesso ne ispira e ne infiamma il
desiderio, rende suscettibilissimi alla noia, intolleranti all’uniformità della
vita, vaghi di novità, malcontenti di se stessi e del presente (Zibaldone, 3347).”
Per Leopardi è il fattore climatico ad attenuare
ed alla fine a provocare la decadenza della eminenza
meridionale
scaturita dal genio meridionale. Ma così non è per Franco
Cassano. Il sociologod barese postula, come Leopardi,  la centralità del fattore ambientale:
“La civiltà contemporanea è fondata su parametri distribuiti in modo
ineguale tra i diversi popoli. Con molto tatto e discrezione non si ama
parlarne, ma tra quei parametri c’è anche il clima (Oltre il nulla: studio su Giacomo Leopardi, Laterza, 2003).”
Ma, attenzione, si tratta pur sempre di un
parametro, ovvero di un metro imposto da una civiltà sulle altre: “un
pesce – avverte Cassano – non può imporre il mare come unico ambiente a tutti
gli animali.” Secondo Demarco, “se il poeta post-illuminista parte
dall’eminenza meridionale e ne certifica alla fine la decadenza, il sociologo
post-moderno propone di ripartire proprio dalla crisi della meridionalità per
annullarne la decadenza e rigenerarla, proprio con la post-modernità.”
Si tratta, secondo Cassano, di restituire
all’immaginazione il primato sulla ragione, attraverso un nuovo rapporto tra
l’una e l’altra: “una nuova filosofia, un’ultrafilosofia, nella quale la ragione non è scomparsa, ma avendo
preso coscienza dei propri limiti, ha restituito un grande spazio
all’immaginazione:”
È il pensiero
meridiano
teorizzato da Cassano, cui De Marco dedica l’incipit e buona
parte del capitolo centrale del libro, dedicato alla meridionalità.
La riconquista della eminenza meridionale è un antidoto a quella modernità che ha creato
guasti profondi, anche nel Mezzogiorno. (Demarco non lo rileva, ma cos’è
l’emergenza rifiuti a Napoli se non la conseguenza estrema di una modernità e
di un consumismo spinti all’eccesso?)
“La modernità 
– scrive De Marco riferendosi a Cassano – ha fatto sì che tutto fosse
vendibile, ha reso sistematico l’osceno
(la montagna di monnezza, appunto,
n.d.r.), ha  prostituito il territorio e
l’ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni.” Però, il Mezzogiorno non
è “né paradiso perduto, né incubo mafioso”. Il Sud è da un lato
“l’effetto del turbocapitalismo”, e dall’altro il pensiero lento
“che è la più antica costruzione sismica o il mare che è la costante sfida
del limite, la specialissima tendenza verso l’esterno”, la rivincita dell’otium sul negotium.
Secondo Demarco, “il punto di forza del
pensiero meridiano consiste nel riformulare la questione meridionale evitando
di ricondurla esclusivamente o a quella sociale, o a quella
assistenziale.”
Va rilevato, però, che il punto di forza indicato
da Demarco sottende una evidente e problematica contraddizione tra sociologia e
filosofia, tanto più singolare quando a rivendicare il primato della filosofia
sulla sociologia è un sociologo. Non è un caso che Demarco ponga il pensiero
meridionale di Cassano a paragone con due delle più moderne ed originali
letture della questione meridionale (ma così dibattute, da poter essere ormai
ritenute un classico della letteratura meridionalista): i contributi di
Bamfield e di Putnam che condividono, con il pensiero meridiano, l’approccio non economico ed anzi
antieconomicistico. Con felice intuizione, Demarco colloca Cassano,  Bamfield 
e Putnam, all’interno di un unico filone socio-antropologico che, a
nostro giudizio, rappresenta un punto di partenza imprescindibile ed un punto
di riferimento necessario per articolare l’autocritica
meridionale
invocata da De Marco.
L’analisi di Edward Bamfield è la più datata in
quanto risale al 1958 (nel testo di Demarco viene erroneamente indicato il
1963, ma The moral basis of a backward
society
  venne pubblicato cinque anni
prima). Il politologo americano (conservatore, sarebbe divenuto consigliere
presidenziale di Richard Nixon, Gerald Ford e Ronald Reagan) studiò
comportamenti individuali e relazioni sociali di un piccolo comune lucano,
Montegrano (nome fittizio, il centro era in realtà Chiaromonte. Si deve a
questa indagine la celeberrima definizione di familismo amorale che, secondo Bamfield, è il fattore maggiormente
condizionante la possibilità di riscatto del Sud: “l’incapacità degli abitanti
di agire insieme per il benessere comune, addirittura, per qualsivoglia fine
che trascenda l’interesse materiale immediato della famiglia nucleare.”
Esiste un deficit di dimensione civica, di
autocoscienza civica su cui tornerà trentacinque anni dopo Robert Putnam (La tradizione civica nelle regioni italiane,
Milano, Mondadori, 1993), scoprendo che il sottosviluppo del Mezzogiorno è
determinato dal basso livello di civicness.
La parola non ha un corrispettivo nella lingua italiana; qualcuno la definisce
“senso civico al quadrato”. Lo stesso Putnam ne parla come “l’interesse
valutato nel contesto di un più globale interesse pubblico”.
Il deficit di civicness
è determinato da ragioni storiche, dovute al fatto che – così Demarco sintetizza
il pensiero di Putnam – “nel Mezzogiorno il costituirsi dello stato normanno ha
condizionato fino ad ostacolarle del tutto la nascita di forme di autogoverno
simili a quelle che si erano sviluppate nel Nord, grazie alla civiltà
comunale.”
Ma, se le cose stanno così, sottosviluppo
meridionale, il divario, la forbice che separa Nord e Sud sono dovute al fato,
al destino, alla storia? Demarco risponde di no, contrapponendo, nel capitolo
significativamente intitolato Questione
di fortuna
, all’immagine di un Mezzogiorno ingabbiato dal suo passato uncivic (privo di civicness), il caso Irlanda. Il paese anglosassone è stato spesso
apparentato dai meridionalisti al Mezzogiorno, per la stessa condizione di
miseria, di povertà diffusa. Ma già Fortunato sottolineava la grande
determinazione degli irlandesi nel battersi contro la Gran Bretagna chiedendo
un regime fiscale diverso, più adeguato alla propria capacità contributiva.
L’esatto contrario di quel modello federalista che sta adottando il nostro
Paese.
Ancora nel 1987, il PIL irlandese era un terzo
inferiore alla media europea, poi, per dieci anni, l’Irlanda ha totalizzato il
Pil pro-capite più alto tra i paesi del vecchio continente. Nel 1995, il tasso
di disoccupazione era al 20% superiore perfino a quello del nostro Sud: dieci
anni più tardi si era ridotto al 4,5%.
Il paradosso è che ad azionare questo boom è stato
un modello sotto alcuni aspetti analogo a quello messo in campo dall’Italia
negli anni Sessanta. Tra gli indiscussi protagonisti della rimonta irlandese
c’è stato l’IDA (Industrial Development Authority), una struttura simile alla
nostra, ben nota Cassa per il Mezzogiorno. Il problema è che l’IDA ha
funzionato, la Cassa per il Mezzogiorno, no. O, almeno, ha funzionato fino a
quando l’intervento straordinario non è stato trasferito alle Regioni. La
storia recente della Capitanata, provincia in cui la Cassa aveva avviato
imponenti interventi strutturali – dall’irrigazione alla valorizzazione
turistica del Gargano – avrebbe da insegnare molte cose a riguardo. Molte opere
avviate dalla Cassa sono rimaste incompiute, ancora in attesa dei finanziamenti
regionali.
Smontando la tesi del Sud “sfortunato”, Demarco incalza:
“Il caso irlandese spiega molte cose. Ma innanzitutto conferma la regola
machiavelliana del fifty-fifty. Nel nostro destino c’è la fortuna, d’accordo.
Ma c’è anche il libero arbitrio, la possibilità di scegliere in un modo o
nell’altro, e, prima ancora, la possibilità di scegliere o di attendere.”
E qui torna la tesi dell’ antimeridionalismo della sinistra meridionale. Più che di un
antimeridionalismo consapevole, si tratta di una saga di occasioni perdute. Per
citarne due sole, il regionalismo e l’elezione diretta dei sindaci, che
avrebbero dovuto – se il libero arbitrio avesse funzionato egregiamente –
colmare il deficit di civicness,
azionare anche nel Mezzogiorno le forme positive di autogoverno evocate da
Putnam e negate dallo Stato normanno. 
Un intero capitolo (La crisi dei governatori meridionali) è dedicato ad esaminare le
ragioni di questa ennesima occasione perduta. Nel 2005 per il Mezzogiorno si
era schiusa un’inedita prospettiva politica, con grandi regioni come la
Campania, la Puglia e la Calabria per la prima volta governate da giunte
omogenee, tutte di centrosinistra. Alle promesse di innovazione, di riforme,
addirittura di rivoluzione non sono seguiti i fatti. Anzi, i governatori si
sono trovati accerchiati da eventi che hanno contribuito a peggiorare
l’immagine, la percezione, lo stato d’animo di tutto il Mezzogiorno. In Campania,
l’emergenza rifiuti. In Calabria l’inchiesta del P.M. De Magistris sull’uso
distorto dei fondi comunitari, e poi la strage di Duisburg. In Puglia, il
disastro degli incendi boschivi a Peschici, l’emergenza sanità e le conseguenti
indagini giudiziarie, la pessima gestione dell’Acquedotto Pugliese. Demarco non
ha dubbi: se “sindaci comunisti come Giuseppe Dozza e i suoi successori
dimostrando a tutti che i rossi non
solo non mangiavano i bambini, ma sapevano anche bene amministrare,
legittimivano di fatto, su scala nazionale, l’intera sinistra di opposizione”,
“i Bassolino, i Loiero, i Vendola, avvalorando l’idea di un Sud sprecone,
assistito ed incapace di risollevarsi, vanificano, pur con i dovuti e
rivendicati  distinguo, ogni speranza
palingenetica.”
È un giudizio forse eccessivamente severo, che
pecca della stessa ingenuità  manifestata
dai governatori regionali sotto accusa, quando, in campagna elettorale,
andavano promettendo la rivoluzione. Il fatto è che la rivoluzione è
impossibile.
Nel Mezzogiorno del Gattopardo dove si cambia
perché tutto resti cos’è, non basta la volontà di un governatore regionale o di
un sindaco per innescare i meccanismi latitanti di civicness, per affermare la legalità, per sconfiggere la
criminalità. Ci vuole ben altro.  Lo ammette
anche l’autore, quando afferma che la retorica dell’anno zero è una trappola.
C’è però un’altra accusa, assai più fondata e
perfino inquietante, che Demarco rivolge all’antimeridionale sinistra meridionale: il capo di imputazione è di
essersi rifugiata, una volta persa la sfida del cambiamento (vero) in un
atteggiamento per metà apocalittico e per metà elitario, il cui unico possibile
approdo è l’exit evocato da Gabriella
Gribaudi, il fujtevenne di Eduardo.
“È la riprova – commenta l’autore – che né il
razzismo etico della sinistra, né la ribellione dell’élite  sponsorizzata dai supersindaci e dai
governatori regionali hanno prodotto gli effetti sperati”. De Marco ce
l’ha con lo snobismo politico della sinistra e con il consociativismo d’elite
che ha prodotto una congerie di autocrati, tecnici, superconsulenti, staff
paradossalmente  accentuando la decadenza
delle istituzioni pubbliche e la partecipazione dei singoli cittadini
all’impegno: “se ci sono loro, i tecnici, gli esperti, i consulenti, a che
serve darsi da fare?”
“Si pone il problema – conclude De Marco – di
trovare nuove forme di governance, un
nuovo modo più popolare e più partecipativo di organizzare la politica. Se
l’ideologia e la vocazione populista si realizzano nella capacità di trasformare
in leggi la cosiddetta volontà popolare (com’è successo con la Lega, a
proposito di una certa idea di federalismo e delle ronde, n.d.r.), il vero
problema, per il Sud, è cosa contrapporre al populismo riformista del
Nord.”
Una bella sfida. Che non può non cominciare da una
serena autocritica meridionale, e da
un nuovo impegno dei meridionali. Tutti. Oltre la propria famiglia. Oltre il
proprio partito.

Geppe
Inserra

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Author: Geppe Inserra

3 thoughts on “Questione meridionale. Oltre la famiglia. Oltre il partito (di Geppe Inserra)

  1. L'ANTIMERIODIONALISMO DELLA SINISTRA VISTO AL SUO INTERNO

    Scrivendo del secessionismo meridionale Rosario Dello Iacovo nel suo blog: "Blogging Around My Soul" fà esplicito riferimento alle forze politiche della destra e della sinistra sostenendo che ….

    "A determinare la marginalizzazione di questa tematica hanno contribuito tutte le forze politiche di rilievo nazionale, perché tanto la destra che la sinistra hanno una propria epopea risorgimentale, una visione mistificata del corso reale degli eventi che portarono all’unità d’Italia.

    A destra domina l’idea del suolo italico liberato dal giogo straniero, di quella patria che si ricollega idealmente all’impero e all’antica Roma.
    A sinistra gli ideali di libertà ed eguaglianza contrapposti alla tirannia borbonica….

    ….. la destra e la sinistra meridionali si sono accodate ad analisi eterodirette, prodotte altrove, fungendo da megafono e allo stesso tempo da tappo agli sporadici tentativi di avviare una riflessione che partisse dal territorio, dalle sue caratteristiche e dalla valutazione dell’eventuale vantaggio o svantaggio del Sud “di restare in Italia”.

    In poche parole, sostiene l'autore, "… una convenienza reciproca delle classi dirigenti del sud e del nord che si spartiscono le risorse in maniera decisamente ineguale. Nelle regioni settentrionali l’ampiezza delle risorse permette lo sviluppo del territorio, oltre alla sopravvivenza del ceto politico e del suo sistema clientelare. In quelle meridionali la prima funzione è praticamente azzerata e, per usare un termine di moda, è la casta che beneficia della quasi totalità del flusso di denaro pubblico".

    continua…

  2. Il meridionalista Nicola Zitara, calabrese, entra più in profondità sulle responsabilità della sinistra italiana.

    Zitara, è scritto nel blog già citato, parte da un ambiente culturale di sinistra. Aderì al Psiup, dopo la scissione del 1964, direttore di Lotta Continua e dei Quaderni Calabresi, Zitara pone la questione nord-sud marxisticamente in termini di rapporti di produzione e di rapporti di classe.

    "Parte dall’affermazione di Antonio Gramsci secondo il quale il nord sarebbe stata una piovra “che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era un rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale”, ma ritiene che siano proprio gli interessi del proletariato settentrionale e quello meridionale a essere oggettivamente diversi e contrapposti.

    Di conseguenza, le strutture politico-sindacali sarebbero un elemento di conservazione della situazione esistente"!

    Angelo D’Ambra, collaboratore di Fora, rivista elettronica fondata nel 2000 dallo stesso Zitara, scrive:

    " Zitara nasce in un ambiente culturale di sinistra, fonda e dirige la sezione catanzarese del PSIUP, è direttore di Lotta Continua, poi di Quaderni Calabresi, meridionalista ed infine separatista…..

    …. Zitara restò socialista, non abbandonò mai l’idea di una lotta complessiva per il miglioramento dell’uomo, per un reale salto di qualità nei rapporti sociali di produzione, per la fine effettiva dello sfruttamento capitalistico che nella nostra terra prende il volto del colonialismo interno".

    E questo è un riferimento per capire come un uomo di sinistra come Zitare criticasse e perché la sinistra…

    E aggiunge: "La classe dirigente e quella partitica e sindacale meridionale amministrano la colonia, fanno da cintura di trasmissione delle direttive nordiste, impongono persino i contenuti delle lotte sociali".

    Zitara arriva a definire la lotta politica nel Mezzogiorno “una farsa che viene rappresentata per intero dai ceti medi e si esaurisce nel loro stesso ambito. Socialismo, comunismo, democrazia cristiana sono delle etichette che professori, avvocati, medici pigliano a prestito per contendersi posizioni di potere personale dopo essersi alleati con le agenzie politiche nazionali”.

    continua…

  3. PER CONCLUDERE

    Da una esperienza diretta di Nicola Zitara:

    "Personalmente di tali incongruenze me ne sono capitate tre o quattro come militante della sinistra. Ne racconto una.

    Siamo intorno al 1955. Ero un giovane fervente, attivo, ma alquanto ingenuo. Le federazioni socialista e comunista mi spediscono a fare il capolista nelle elezioni comunali di un paese non lontano dal mio. Mi viene spiegato che sarei andato lì in nome della lotta alla mafia, che candidava un suo esponente a sindaco del paese.

    Al primo incontro con i compagni del luogo, mi fu chiesto di far visita a un latitante, che era il vero avversario del non latitante candidato democristiano.

    Il 'mio' latitante era un uomo saggio, avveduto, uno che amava il popolo e che il popolo rispettava, ma non certamente un nemico della mafia, il quale disponendo di un certo numero di voti mafiosi abbisognava di un'etichetta politica per coprirli. La cosa divenne chiara a me solo in quel momento, ma chi mi aveva spedito alla ventura la sapeva già da molto prima.

    Esiste la destra ed esiste anche la sinistra. Ma non stanno di casa qui. Qui c'è soltanto il malaffare, frutto di un'assurdità che va sanata anche a costo di misure energiche".

    Ovviamente c'è molto da raccontare ma prima o poi, ogni scritto deve concludersi…

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